Una sigaretta lunga tutta una vita, il racconto di Gianluca Salviato

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Incontriamo Gianluca Salviato una mattina di novembre.

Le auto sfrecciano veloce a Noale, nel veneziano, davanti la vetrina di quel cafè del centro. Fuori c’è la nebbia, la gente corre, va al lavoro, ma il tempo con lui sembra scorrere lento. Sembra essersi fermato.

Come si è fermato il suo di tempo, quel 22 marzo 2014, quando nel giro di 30 secondi la sua vita è completamente cambiata. “La mia vita è cambiata due volte – ci dice Gianluca Salviato – in due semplici schiocchi di dita. Il primo il 22 marzo quando mi rapirono e il secondo il 15 novembre quando mi liberarono”.

Gianluca Salviato fu rapito il 22 marzo in Libia e rilasciato dopo 243 giorni.

Otto mesi e tre giorni in mano ai carnefici. È un capocantiere di successo Gianluca, 49 anni, veneziano, girare il mondo è la sua vita e sopra gli aerei e sui nastri trasportatori dei bagagli ha visto scorrere gran parte del suo tempo. E questo fin da piccolo, fin da quando il padre lo portava in giro per il mondo, perché tecnico anche lui. Una vita piena di sacrifici la sua. “Non ho avuto una bella vita – dice – ma una vita bella”. Gianluca infatti ha sempre lavorato e studiato molto per arrivare fin dove è arrivato e mai, e poi mai avrebbe pensato che quel giorno, lungo la strada che lo portava a un cantiere avrebbe incontrato un’altra via, tortuosa e piena di insidie ma nonostante questo lui, ottimista per natura, ha fatto della sua storia una rinascita. “L’altro giorno – dice – ho detto a mia moglie che ho vissuto un’esperienza eccezionale”. E’ lucido quando ci racconta ciò e la sua è l’esperienza più temibile, terribile e sconvolgente che ci sia.

Quella dell’essere prigioniero, quella del panico, del terrore e della paura che lentamente si trasforma e diventa riflessione, impegno, concentrazione. Resistenza. Una resistenza durata 243 giorni e 243 lunghe notti. Anzi una notte lunghissima dove Gianluca la speranza non l’ha mai persa.

“Quando mi hanno preso – racconta – erano in otto. All’improvviso quel giorno stavo guidando. Mi hanno bloccato. Avevo un’auto davanti e una dietro. Dentro di me ho pensato: adesso metto la retro. Sono una persona molto razionale ma mi sono ritrovato con un kalashinokv puntato alla testa. Sono sceso dall’auto, mi hanno coperto il volto mi hanno caricato in auto e mi hanno picchiato. Il passamontagna era al contrario, vedevo e non vedevo. Poi mi hanno portato in una casa. Li mi hanno spogliato, sono rimasto in mutande e mi hanno messo una tunica nera.
Ho vissuto per otto mesi e tre giorni con la paura a sinistra e la morte a destra. Prima mi hanno portato in una casa ma non capivo dove. Urlavo loro che ero diabetico ma niente.”

Gianluca infatti viene rinchiuso in una stanza murata e da lì comincia il suo lento percorso dentro di sé. Prima sempre più in fondo nell’oscurità, con il pensiero della morte ricorrente. Un chiodo fisso, puntato contro, come il kalashnikov che ogni giorno i ribelli caricavano e fingevano di sparare per fargli vedere come sarebbe avvenuta l’esecuzione. Gli facevano vedere i video della gente che prima di lui era passata sotto le loro armi ed era finita morta ammazzata. “Mi ripetevo sempre – dice – dai Gianluca, in fondo quanti ne hanno rapiti? Tanti. E quanti ne hanno ammazzati? Due”. Ma il terzo poteva essere lui e questo pensiero comincia a tormentarlo, sempre più fino a soffocare.

Poi un giorno Gianluca capisce che deve fare qualcosa, così comincia a pensare alle cose belle e da lì comincia a risalire sempre più verso una nuova luce. “Mi sono detto devi pensare a tutte le cose belle che hai fatto e che ti fanno sorridere”. E così comincia, da quando va a comprare i vestiti con la moglie che se li prova e uscendo dal camerino fa un sorriso, a quando è in Russia e pesca nei laghetti ghiacciati. “Ripensavo ai momenti in cui andavo in un lago, facevo un foro nel ghiaccio e poi con la canna da pesca tiravo su”. Ma tutto questo ancora non basta. Allora comincia a camminare, lui che è comunque un uomo dal fisico atletico e sportivo. “Seguivo per un’ora tutto il perimetro della stanza, e camminavo, camminavo, camminavo. Camminavo per un’ora al giorno. Non sapevo davvero cosa fare e così mi sono rimesso a reimpostare i nodi dei marinai. Da giovane li sapevo fare tutti ma non me li ricordavo. Così mi sono messo e ho imparato di nuovo”. E infatti Gianluca riesce anche a fare i nodi ma ancora la lenta agonia non si arresta e lui comincia a anche a stare male fisicamente. “I primi mesi – dice – mi davano acqua in bottiglia, poi hanno cominciato a darmi acqua delle loro fonti ma non si poteva bere, mi faceva male, mi si gonfiava la pancia e mi faceva dissenteria, così ero completamente disidratato”. Una situazione ai limiti dell’umano dove lui ne è uscito a testa alta.

“Un’esperienza così ti cambia la vita – dice –  la cambia in tutto. Io ho un’altra visione adesso della mia vita. Sono cambiate le mie priorità, la mia scala di valori, i miei obiettivi. Ho smesso di fare progetti troppo a lungo termine perché so che la vita può cambiarti da un istante all’altro. O meglio faccio anche i miei progetti ma non ci rimango male se poi per qualche motivo questi non si realizzano. Prendo tutto con molta più serenità. Con più equilibrio. La parola di questo periodo della mia vita è infatti proprio equilibrio. Per me ora é tutto bello, la pioggia il sole. Pensa che l’altro giorno mi sono soffermato a guardare un’ape nel mio giardino, io che ero un continuo lavoro lavoro e lavoro. Non mi ero mai soffermato a pensare a quanto bella potesse essere un’ape. Per me ora prendere un caffè con qualcuno è meraviglioso. Ho imparato ad apprezzare le piccole cose, ho imparato ad apprezzare quello che gli altri mi sanno dare e non quello che io vorrei. Ho sempre preteso tanto io, sia da me stesso che dagli altri. Ho capito che se qualcuno non ti dà 110 ma ti dà 90, va bene uguale. Ho capito che mio padre e mia madre stanno invecchiando, e che ora sono loro che hanno bisogno di me. Io prima non ci avevo mai pensato”.

Gianluca racconta di come durante la prigionia a volte il solo pensiero che i suoi cari potessero essere in pena per lui lo faceva stare ancor più male di quanto non stesse lui in quella situazione. Il dolore che provava per i suoi genitori, per sua moglie, gli faceva scoppiare il cuore. “Quando si dice le persone muoiono quando si spezza loro il cuore, io l’ho provato perché a volte credevo davvero che il cuore si spezzasse. Credevo di morire d’infarto. Il pensiero che gli altri potessero stare male per me era più grande del dolore che provavo io. Ci sono dei dolori intollerabili nella vita che non puoi gestire”.

Già, perché Gianluca sapeva in ogni attimo che era ancora in vita, ma chi lo aspettava a casa no, sapeva solo che da un un momento all’altro la sua testa poteva saltare da fanatici ribelli. “Quando realizzi che tocca a te – dice – sviluppi una totale tranquillità per cui ti affidi al Signore. A un certo punto non avevo più paura, sapevo governarla. Sapevo gestirla”.

Dopo otto lunghissimi mesi Gianluca viene liberato per mano dei servizi segreti.

Quando li ho visti mi hanno chiesto di cosa avessi bisogno. Io ho risposto loro: “datemi una sigaretta”, una sigaretta che lui ricorderà per tutta la vita.

Sbett

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