“Noi guardiamo i cadaveri e ci mettiamo a scrivere”

L’altro giorno parlavo con un amico. Gli ho raccontato di un caso che sto seguendo. E mi ha detto: “mi sono sempre chiesto come fate voi giornalisti a trattare certe storie, immagino non sia facile, perché tocca dei punti dell’anima che in qualche modo vi smuove”.

E infatti. Vero. Noi scriviamo. Scriviamo. “Guardiamo i cadaveri e ci mettiamo giù a scrivere”, come mi aveva detto una volta una collega. Ma poi. Poi la sera torniamo a casa. E ci pensiamo. E allora ieri pomeriggio avevo bisogno di una boccata d’aria. Avevo bisogno di respirare e sono andata a vedere la mostra di Inge Morath a Ca’ dei Carraresi a Treviso. E caso vuole che stia scrivendo questo post di ritorno dal lavoro, ferma al parcheggio mentre aspetto un amico, e alla radio passi la canzone “I know there’s something going on” di Frida. Che tradotto è “so che qualcosa sta accadendo”. Ed è proprio la sensazione che ho avuto ieri quando guardavo questa mostra. L’attimo perfetto. Giusto un attimo dopo di quando qualcosa sta accadendo. Inge Morath riusciva a immortalare l’esatto momento in cui accadeva qualcosa, sapendo già prima che qualcosa stava per accadere. Un po’ quello che facciamo noi. Che dobbiamo sempre sapere prima che accada.

Il marito Arthur Miller l’aveva descritta così: “Inge inizia a fare i bagagli non appena vede una valigia”. E infatti, prima che una fotografa – la prima donna a essere inserita nel cenacolo, all’epoca tutto maschile, dell’ agenzia fotografica Magnum Photos – Inge Morath era una viaggiatrice. Curava i suoi reportage con cura maniacale. Ovunque nel mondo: Iran, Stati Uniti, Francia, Spagna, Russia, Romania. In più sapeva l’inglese, il francese, il tedesco, il russo, lo spagnolo, il mandarino e il rumeno. E questa conoscenza delle lingue le consentiva di entrare a contatto con la gente. Di aprirsi. Di farli aprire. “Ti fidi dei tuoi occhi – diceva – e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima”.

Un po’ come accade a noi. A noi che scriviamo e raccontiamo. A noi che ci cibiamo delle vite degli altri. Ti fidi di ciò che senti e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima. E allora mi sono tornate in mente le parole del mio amico. Perché sì. Mestieri come il nostro, ti squarciano l’anima. Ti aprono ferite che credevi sepolte. Ti fanno tirare fuori quello che nemmeno credevi di avere. Ma una cosa è sensazionale: ti fanno capire le persone senza che loro dicano niente. E ora vi saluto perché il mio amico è arrivato.

#sbetti

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