A quel ragazzo seduto su uno sgabello

Dal diario di Facebook di venerdì scorso.

Oggi mi è successa una cosa.

E non lo so se questa persona mi sta leggendo, ma volevo provare a lanciare un messaggio. Allora oggi mi trovavo in un supermercato. Sapete no quelle spese che si fanno, nel mezzo della “pausa” pranzo, mentre tra una mano tieni il telefono, nell’altra l’agenda e in mezzo alle gambe la lista della spesa. Ecco.

E allora sono entrata in questo supermercato e dovevo chiedere una cosa. Così mi avvicino al cassiere e vedo che è un “ragazzo” giovane sulla quarantina con gli occhiali e il maglioncino girocollo marroncino.

Allora lo guardo. Gli chiedo dove mai fosse un prodotto che cercavo e mi risponde con la più assoluta gentilezza. Però vedevo che negli occhi aveva qualcosa che non andava.

Allora guardo la fede al dito e mi dico: no bé, non ha gli occhi di chi soffre per amore. Gli occhi di chi soffre per amore sono quelli che somigliano a un cane che non può abbaiare. Gli amori non corrisposti. Quelli malati. Quelli gelosi. Quelli dove ci si deve sempre tenere e mai manifestare. Ma allora mi sono detta no. Lui non soffre per amore.

Anzi, non vede proprio l’ora di andar via di qui. E infatti.

I suoi occhi erano quelli rassegnati.

Di chi ormai sta lì credendo che il mondo che sta fuori sia pure bello, ma che lui sta in una gabbia.

E infatti gli ho guardato il camice del lavoro ed era tutto impolverato. Tutto pieno di pelucchi. Come se fosse “tanto prima me lo tolgo meglio è”. E allora ho alzato lo sguardo e ho visto che il tipo se ne stava seduto in uno sgabello al posto di comando. Cinquanta centimetri di un posto nel mondo, per sbattere tastierini di una cassa che ingoia e rigurgita il denaro degli uomini. E subito dietro quella cassa, dietro la sua testa, una barra di metallo del colore grigio di un grigio freddo se ne stava incollata alla parete, che ti sembrava di stare in qualche sala di qualche medico legale che seziona cadaveri e li ricompone.

E allora poi all’improvviso è entrato un signore. Un tunisino credo. Ha fatto il giro. Ha preso due cose. È uscito, lui lo ha salutato per nome; io stavo impalata a intralciare il traffico, e mi ha chiesto permesso.

Poi è arrivato un altro. Anche di questo il cassiere sapeva il nome e il cliente gli ha perfino lasciato un centesimo di mancia. Quando noi chiediamo perfino di arrotondare per difetto.

E allora lui sapeva i nomi di tutti. E si rapportava con i clienti con una gentilezza che uno si chiede: Dio mio come fa, come fa. Come fa a stare seduto su uno sgabello da macellaio, con dietro quella barra di metallo che ti sembra di stare a sezionare cadaveri, con quel freddo addosso ed essere pure così gentile.

Quando alcuni, poggiando il culo su posti confort, rispondono al telefono che pare che un’ape li abbia punti giusto a metà tra una chiappa del culo e l’altra.

Dio mio quanto abbiamo da imparare.

E allora ho visto che era gentile e siccome mi cibo delle storie degli altri, ho iniziato a parlare. Anzi veramente abbiamo cominciato insieme.

E allora mi ha detto che ha un problema. Che adesso non sto qui a dirvi quale.

E insomma che in sostanza viene abbastanza sfruttato. Che non si trova bene. Che non è possibile. Che ha provato più e più volte a denunciare ma non è servito a niente. Si è sempre trovato da solo.

E allora gli ho detto: “vattene, hai la vita davanti, cerca altrove, oppure battiti e fa in modo che le cose cambino”.

E allora lui mi ha detto di no. Che non si può. Che i martiri sono sempre finiti male. Che in questo mondo, in questa Italia, va avanti chi lavora a testa bassa senza dire niente né fare storie.

E che alla fine, ci avevo azzeccato, quando finisce non vede l’ora di filare dritto a casa.

Poi a un certo punto ha usato un vocabolo. Un vocabolo che solo uno studente di Giurisprudenza può sapere.

E così gli ho chiesto: “ma sei laureato in Giurisprudenza?”. E lui mi ha detto: “sì”.

Anzi. Nemmeno con tanto vanto. Non come quelli damerini fighettini che si prendono la triennale e pare che la Nasa non possa stare senza di loro.

Laureato in Giurisprudenza a Padova poi, ai tempi in cui c’era il 18 al volo e ai tempi in cui se non usavi almeno un vocabolo in latino eri un coglione finito a Palazzo del Bo solo perché non sapevi che fare.

E così mi ha raccontato anche del suo esame di Filosofia del diritto. E di quanto si vedeva amasse questa disciplina.

Allora l’ho riguardato, e gli ho detto: “alza la testa, vai avanti, battiti per i tuoi diritti”.

E lui mi ha detto no. E ancora e ancora no. No. Mi ha detto che a denunciare si rimane soli.

E allora gli ho detto: “dillo a me. Sai anch’io ero rimasta sola. Ero appunto. Ma si va avanti. Con coraggio. Senza paura”.

Ma niente. Niente. Non c’è stato niente da fare. E allora non lo so.

Non lo so se ora da qualche parte lui mi sta leggendo.

Ma quando oggi sono uscita, accendendomi quella sigaretta, ho sperato che la nostra chiacchierata un giorno possa servire a qualcosa.

E poi stasera ripensando alla sua storia, mi è venuta in mente questa immagine che ho scattato.

Questa qui. Sì.

Perché a volte, anche se quello che vedi sembra possa bastare, se scosti i rami, lo spettacolo è sensazionale.

#nottesbetti

#sbetti

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