
L’altro giorno ho fatto una lunga chiacchierata con il papà di Samantha D’Inca, la 30 enne di Feltre (Belluno), in coma da 309 giorni. Erano 308 ieri come scrivo nel pezzo sul #Giornale. Il padre li sta contando tutti.
All’inizio la conversazione era fredda. Poi un po’ alla volta, passetto dopo passetto, il padre si è lasciato andare e ha provato a raccontarmi la situazione e la sofferenza che quel limbo di ansia e angoscia genera. Samantha a novembre dell’anno scorso era finita in ospedale per una semplice operazione al femore dopo un’incidente.
“Dovevano metterle due viti”, mi ha detto il padre. Ma per una banale complicazione, il suo cervello è rimasto senza ossigeno per qualche secondo e Samantha è entrata in coma. In “stato vegetativo permanente”.
Da quel giorno per i familiari di Samantha e soprattutto per il fratello gemello è iniziato lo strazio, il calvario. Il fratello gemello soffre particolarmente. Quando oltre a essere fratello dello stesso sangue. Sei figlio dello stesso sacco. Dello stesso parto. Dello stesso travaglio.
La vita che si squarcia, il legame che si spezza, che si recide, che sanguina, che crea dolore, che mai si rimargina. Con Samantha lì così incollata alla vita e cucita alla morte.
Dopo quel momento i familiari le cure le hanno provate tutte. Si sono anche rivolti al medico Leopold Saltuari, il medico nominato dal tribunale di Belluno, che ha seguito anche il caso Schumacher. Le perizie mediche indicano che Samantha ha le capacità di un bambino di un mese. Forse potrebbe arrivare a due.
E ora è perfino tornata in posizione fetale. Come se stesse dentro la pancia della madre. Il medico aveva suggerito di installare una piccola pompa nel midollo spinale ma il padre mi ha spiegato che “non si può. Samantha è troppo magra, peserà sì e no 37 chili”.
I genitori hanno chiesto l’interruzione delle cure. Perché Samantha, dice il padre, non avrebbe mai voluto vivere in questo stato di “non vita”.
L’altro giorno è arrivato il parere del comitato etico dell’azienda sanitaria di Belluno che dice che “si può staccare la spina”, che per come stanno le cose, “inutile proseguire con l’accanimento terapeutico”.
Questa posizione arriva sulla scia della richiesta di un referendum – le firme sono state depositate ieri, 1 milione e 220 mila firme – con cui si chiede l’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente sdoganando di fatto l’eutanasia del consenziente stesso.
Ma la domanda è sempre quella. Dove finisce la vita? Dove inizia la morte?
Anche il covid, a modo suo, ci ha insegnato che nel bene o nel male la scienza è imperfetta.
#sbetti
