Il caso di Doina Matei, fin dove si spinge la semi libertà 

Allora Salvo Riina no, e la Matei sì.

É il 27 aprile del 2007. Tra undici giorni saranno nove anni fa. Soltanto nove. Vanessa #Russo, 23 anni romana, sta camminando nel tunnel della stazione metro di #Roma Termini, quando incrocia Doina #Matei, romena che di anni all’ epoca ne aveva 18. Una banale spinta che la Matei non gradisce, afferra l’ombrello e colpisce la ventitreenne. Il colpo le piomba dritto sull’ occhio, infilzandolo, squarciandolo. Conclusione Doina Matei scappa, sarà ripescata e arrestata dopo qualche giorno incastrata dalle telecamere di videosorveglianza e la Russo invece muore. L’ingresso violento dell’ombrello nell’ occhio le perfora una cavità orbitaria, causandole la rottura di un’arteria cerebrale.

La Matei viene quindi condannata a 16 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, oltre l’intenzione. Non voluto in sostanza. Con l’aggravante però dei futili motivi. Sedici anni che secondo i calcoli dovrebbero scadere nel 2023. Nove mesi fa però ottiene la semilibertà, assistita dall’ avvocato Nino Marazzita. Un anno fa infatti viene trasferita a Venezia, dove lavora in un ristorante e la sera rientra per dormire in carcere.

In questi giorni, grazie al pentimento, che arriva puntuale quando annusi che potrebbero accorciarti la pena, stava scontando un permesso speciale per buona condotta che le consentiva di dormire fuori.

Una semilibertà ora revocata. Doina ha pubblicato, in #Facebook, delle foto in bikini al Lido di #Venezia e il giudice lagunare Vincenzo Semeraro ha sospeso l’applicazione dell’articolo 21 del regolamento penitenziario – che consente, scontata metà della pena, la possibilità di lavoro esterno diurno – Ergo: la Matei torna in carcere alla #Giudecca.

Subito c’è chi si è scagliato contro il giudice per aver “punito” un comportamento “normale”, per aver punito la stessa possibilità di sorridere. E se è vero che non c’è un divieto che imponeva a Doina di non postare foto nei social, è vero però che esiste una questione di umanità, di rispetto, di libertà che finisce dove non violo la tua; perché se sei in un regime di semi libertà dovresti comprendere che non tutto ti è concesso. E postare foto nei social rientra in quel “non tutto”. Se c’è una cosa che balza agli occhi dopo qualche incidente è il coraggio che hanno le forze dell’ordine nel suonare il campanello ai familiari o nel chiamare a casa per dire loro che il figlio non c’è più. Un po’ come è accaduto quella sera e il giorno dopo quando Vanessa è morta. Adesso, andate a spiegare ai genitori della ragazza ammazzata che la donna che l’ha uccisa posta le foto in bikini sui #social network, dopo nove anni, in regime di semilibertà. Andate a dire che Doina è felice e Vanessa è sottoterra.

La libertà che si riacquista, giustamente, dopo aver commesso un crimine non andrebbe tanto sbandierata, andrebbe goduta a piccole dosi perché se ne hai compreso il valore sai quanto male hai fatto e quanto male fa quando ti viene tolta. Come tu l’hai tolta a una ragazza che ora non può più vivere la sua vita e l’hai tolta ai genitori che non l’hanno potuta mai riabbracciare. Il farti vedere sorridente in bikini non può essere mostrato al mondo intero perché a qualcuno può far male. “Può essere una pugnalata al cuore – come hanno detto i genitori di Vanessa a Il Messaggero. La tua gioia condivisa non può essere condivisa da tutti, né può diventare oggetto di un inseguito e tallonato like. Ci vuole rispetto e dopo pochi anni la ferita è ancora aperta. Soprattutto per quella madre e per quel padre che hanno perso la figlia da un giorno all’altro. Nemmeno dieci anni fa. Che una ragazza possa rifarsi una vita ci sta, che le si dia la possibilità di andare avanti anche, che la si reinserisca per integrarla e farle fare qualche attività anche, che le si permetta di studiare ben venga ma che le si dia la libertà di sfoggiare la sua agognata libertà bé forse questo è un po’ troppo. Si crea quel meccanismo malsano in cui tutti possono tutto e nessuno può dire niente. E adesso per la prima volta che abbiamo un giudice che interviene revocando la misura della libertà vigilata tutti cercano di capire in base a cosa possa averlo fatto. L’ha fatto in base alla sua discrezionalità perché un crimine così crudele non può chiudersi con l’immagine di lei che sfoggia il segno di vittoria davanti a tutta Italia. Quell’Italia che la sera stessa dell’intervista del figlio di Riina a Porta a Porta si è mostrata indignata esponendo addirittura cartelli fuori dalla librerie con scritto “Qui il libro non si compra né si vende”.

Allora per una persona colpevole di associazione a delinquere, nata in una famiglia di mafiosi che non ha avuto il coraggio di ribellarsi a quello schifo e a quei meccanismi malsani, ci si indigna, si alza la voce, si protesta, si fanno campagne addirittura contro la #Rai e contro i programmi. Poi per una ragazza venuta in Italia che ha impugnato un ombrello per una banale lite, con tutti i trascorsi che può aver avuto, e l’ha usato come arma si mostra tutta la pietà che si ha. Forse perché postare le foto sorridenti su Facebook è un comportamento che ci tocca da vicino. Forse perché pensiamo che un giorno potrebbe essere tolta a noi la libertà di postare aperitivi spiagge e mari nella nostra foto profilo. Ma anche se uno era il figlio di un boss che ha trucidato e ammazzato centinaia di persone e una è una donna che ne ha ammazzata una, non è che sia da meno. La morte di uno non vale meno di cento.

#Sbetti

 

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