
Dal diario di Facebook del 10 marzo 2.38
Ora voglio condividere con voi una cosa.
Che mi auguro possa farvi riflettere sulla gravità della situazione.
Senza ansia. Senza panico. Senza assalti ai supermercati. O ai treni.
Allora l’altro giorno leggo un tweet del collega Gian Micalessin.
Lui da 35 anni racconta le guerre nel mondo.
Lui fa l’inviato di guerra.
Il giorno che sono stata a Vo’ Euganeo, nella zona rossa, ero in preda alla paura.
Tornando a casa lungo quei tornanti di notte, al buio, da sola, senza trovare nulla di aperto dove potermi appoggiare per scrivere il pezzo, mi veniva da piangere.
Mi chiedevo chi me lo fa fare, stare qui di sabato sera, con la paura, con il rischio. Con l’angoscia.
Non sapendo bene cosa fosse – ma non lo sappiamo nemmeno adesso – credevo addirittura di averlo respirato.
Che mi fosse entrato dentro l’auto. Boh. Non so. Da qualche parte. Sulle bocchette. Continuavo a tirarmi su la sciarpa per coprirmi tutta.
Poi. Poi ho trovato un posto. Molti chilometri dopo. Mi sono lavata le mani. Mi sono seduta su un centimetro quadrato. Ho preso un caffè e ho scritto due pezzi.
La sera tardi però quando sono tornata a casa non riuscivo a starmene tranquilla. Forse sono esagerata mi dicevo.
Così ho preso e ho scritto a Gian Micalessin.
Durante il viaggio mi erano tornate in mente le parole del suo libro scritto con Fausto Biloslavo, Guerra Guerra Guerra, dove diceva che quando scese a Kikwit, nel 1995, nello Zaire, andò incontro all’Ebola.
“Capii che ero da solo – aveva detto – Eravamo io e e le mie paure”.
Una frase che durante il giorno mi era rimbalzata in testa più volte.
Lungo i tornanti, avrei voluto girare i tacchi e tornarmene indietro, sfrecciare da un’altra parte, ma la forza che mi trainava in avanti era più forte, e così mi ripetevo: “dai Serenella, altri cinque chilometri, quattro, tre, due, un altro chilometro, schiaccia l’acceleratore, fai quello che devi fare e vai via”.
E così ho fatto.
E allora dicevo la sera ho scritto a Gian Micalessin e gli ho detto che avevo ripensato a quella sua frase del libro e che mi era servita tantissimo.
Lui mi risponde che nel pezzo del Giornale racconta come le cose non siano molto diverse.
Perché pensavo lungo il tragitto: se vai in guerra le bombe le senti. I proiettili li vedi. Quando ti ha sfiorato sai che non ti ha colto.
Qui no.
Qui il virus potrebbe essere ovunque. Potrebbe esserti accanto. Potrebbe starti addosso. Potresti portartelo dentro le case. Nei maglioni.
Potrebbe aspettarti tra le strette di mano.
Negli abbracci. Potrebbe stare nelle maniglie. Nell’auto. Ovunque.
Nel respiro. Nell’affanno. Quando non conosci il tuo nemico le pensi tutte.
E infatti.
“Bombe e proiettili si vedono e si sentono – scrive Gian – Il virus no. In guerra se ti colpiscono sai subito com’è andata. Con Ebola no, devi aspettare due o tre settimane. E intanto lui può esserti entrato dentro”.
“E così il contagio diventò un’ossessione – continua raccontando della sua esperienza – un fantasma, un tarlo che rubava il sonno, dominava gli incubi, accompagnava ogni istante della giornata. Durò per sei giorni e sei notti, s’impadronì delle mie viscere, dei miei pensieri, della mia forza d’animo”.
Un morbo quello dell’Ebola, misterioso e letale, passato, come il Coronavirus, dagli animali all’uomo.
Ma passa qualche giorno, le notizie si accavallano, dal panico passiamo alla rassicurazione e io mi tranquillizzo.
Poi. Poi l’altro giorno ho visto il suo tweet.
“Nel 1995 – scrive Gian Micalessin – trascorsi una settimana a Kikwit epicentro della seconda grande epidemia di Ebola in Zaire. Non mi sarei mai aspettato di rivivere sensazioni simili in Italia 25 anni dopo”.
Ecco.
Allora qui. Allora qui ho capito che la situazione è grave.
E che ora solo noi possiamo fare qualcosa.
Il virus non prende treni e aerei da solo. Non si attacca alle persone se noi non lo facciamo attaccare.
La situazione è drammatica.
State nelle vostre case.
Per favore.
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