Post scritto la notte del 5 luglio 2017.
Lo riposto a 36 anni dalla morte di Almerigo.
“Questa mattina mi sono svegliata con in mente la foto dell’Armata Rossa che si ritira dall’Afghanistan.
L’ho vista ieri alla mostra a Trieste, al Museo di guerra per la pace “Diego de Henriquez”, curata da Fausto Biloslavo e Gian Micalessin in ricordo del loro amico e compagno di avventura Almerigo Grilz.
Una mostra a trent’anni dalla morte di Almerigo, primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, che il 19 maggio 1987, a Caia, in Mozambico, rimase ucciso colpito da un colpo d’arma da fuoco alla nuca, mentre riprendeva uno scontro a fuoco tra i soldati governativi e i ribelli della Renamo, la Resistenza Nazionale Mozambicana.
Nel documentario video inserito all’interno della mostra si vede perfettamente il momento della morte di Almerigo.
Quello durante il suo ultimo reportage, mentre filma i guerriglieri e corre.
Si vede la corsa e si percepisce il fiato che avanza, si vedono le riprese a tutto campo e poi all’improvviso un colpo secco.
Una caduta a terra e la cinepresa che continua a riprendere, inquadra il piede di lui e poi si ferma. Fissa. Immobile.
Il piede forse già quasi inerme.
La macchina continua a riprendere quel campo giallo e verde e quel cielo così grigio azzurro senza spegnersi.
Come a dire “mi avete ammazzato” ma qualcuno continuerà per me.
E Fausto Biloslavo e Gian Micalessin hanno continuato.
Se per un attimo ci si ferma davanti una foto e ci si immerge, se si pensa che quella foto è stata scattata da qualcuno che si trovava così in quella posizione o forse accovacciato o forse steso a terra e che in quel momento stava rischiando la vita, ecco se si prova a immaginare questo, vengono i brividi.
Soprattutto nel vedere quanto vicini si siano spinti per fotografare uomini, donne, bambini, anziani, feriti, guerriglieri, combattenti, soldati.
Solo in quel momento si capisce quanto sia importante qualcuno che faccia questo lavoro. Qualcuno che decida di indossare questo mestiere.
Che decida un giorno di partire, lasciando a casa gli affetti e raggiungere le vite nel mondo.
Una mostra che è un documentario con pezzi di storia memorabili e foto fantastiche.
Sono andati ovunque.
In ogni luogo dove c’era la guerra, o dove c’è la guerra loro sono stati o loro ci sono.
Hanno ripreso e raccontato i più terribili conflitti, le più temibili battaglie.
Sempre in prima linea, sempre in mezzo a chi combatte e si difende per raccontare vivendo quello che succede.
Anche le guerre dimenticate, quelle che il mondo non sa nemmeno esistano.
Sempre con elmetto, giubbotto antiproiettile, un taccuino per raccontare e una macchina fotografica per scattare.
Delle storie che qualcuno deve pur raccontare, un mestiere che qualcuno deve pur fare mi ha detto Fausto ieri alla mostra. Una mostra che è un capolavoro che va dagli anni di Almerigo fino alla tremenda battaglia di Mosul. E quindi: Afghanistan, Etiopia, Filippine, Vietnam, Mozambico, Iran, Cambogia, Birmania, Libano, Libia, Siria, Iraq.
Quelle 90 tele esposte su quei pannelli, ti entrano dentro e ci rimangono.
Fisse. Impresse.
Foto scattate da Almerigo, da Fausto e da Gian Micalessin che rendono l’idea di cosa sia questo mestiere.
Ma che soprattutto raccontano le vite degli altri, le vite di chi meno fortunato nasce in un posto in cui vive e cresce sempre costantemente in guerra.
Perché non è vero che si vive lo stesso senza sapere cosa accade dall’altra parte del mondo. Sono loro i nostri occhi della guerra.
Dio solo sa la fortuna che abbiamo nell’averli.
sbetti



