“Le loro idee camminano sulle nostre gambe”

Avevo 8 anni quando morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Non ero troppo piccola ma nemmeno abbastanza grande per capire cosa fosse veramente accaduto. Cosa ci fosse veramente sotto.
Ricordo però che quel giorno – e me lo ricordo come fosse ieri – ero al supermercato con i miei genitori e all’improvviso si interruppe la musica.
Andò l’edizione straordinaria del telegiornale. La gente mollò i carrelli, i pacchi di pasta, gli etti di prosciutto, e tutti cominciarono a guardarsi l’un con l’altro. Erano le 17.58 del 23 maggio 1992. Trentuno anni fa.
Perfino la cassiera rimase con il contenitore dell’olio in mano senza dire niente. Perfino la salumiera smise di affettare i formaggi.
Al telegiornale dissero che c’era stato un grosso incidente. Un attentato.
Chiesi a mia madre cosa fosse successo e mi dissero che forse avevano ammazzato un giudice.
“Hanno ammazzato un giudice”, mi disse tra gli scaffali di quel supermercato ormai freddo, gelido, sgomento.
Quando tornammo a casa volli subito guardare la televisione. Giovanni Falcone morì poco dopo. La moglie verso le dieci di sera.
Ricordo che per giorni continuarono a susseguirsi alla le immagini della strage, dei processi, dei giudici, di quelle auto accartocciate su se stesse, irriconoscibili, sventrate. Per me erano tutti fotogrammi che si susseguivano l’un con l’altro, in attesa di dare loro un senso.
Il senso gliel’ho dato quando al liceo capii che volevo studiare Legge.
Che volevo barcarmenarmi nei meandri della giustizia, delle toghe, dei tribunali.
Poi mi resi conto che la vita non sempre ti dà quello che vuoi, ma quello di cui hai bisogno. Quello per cui sei portato.
Lì capii che i principi che avevo dentro di me erano universali. Il senso di giustizia. La legalità. Il coraggio.
Il rinnegare il “puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. E il sentire invece “la bellezza del fresco profumo della libertà”.
Falcone diceva: “Che le cose siano così, non vuol dire che debbano sempre andare così. Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”.

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