Quando studiavo Legge credevo ci fosse una Giustizia. O per lo meno che ci fosse un’idea di giustizia. Ricordo che i primi anni, quando era ancora tutto bello e le lezioni venivano tenute in aula alzandoci in piedi quando il docente entrava, guardavo quei film che parlavano di detenuti ingiustamente e mi dicevo: “no ma non può essere vero. Non può essere che uno finisce in galera e non ha commesso niente. Qualcosa deve pur aver fatto per meritare la galera – mi dicevo – nessuno viene sanzionato se non lo merita”.
Così sono cresciuta i primi tre anni di Giurisprudenza con questa idea. Con l’idea di giustizia. Di una giustizia giusta.
Con l’idea che il mondo fosse governato tra yin e yang, notte e giorno, nero e bianco, e che il bene trionfasse sempre sul male. Mi iscrissi a Legge con in testa i miti di Falcone, Borsellino, Chinnici; Dio quanto ho divorato quelle videocassette, quanto quei dvd; sognavo di fare il commissario di polizia, la poliziotta o il pubblico ministero. Volevo riportare i delinquenti alla giustizia, e far prevalere l’interesse delle vittime.
Fino a che un giorno. Un giorno conosco un medico. Molto bravo. Bello. Me ne innamoro e un giorno lui mi fa: “sei proprio sicura che tra giustizia e legalità ci sia sempre coincidenza?”. Ricordo ancora quel giorno. Ero appena uscita dalla facoltà di Giurisprudenza a Padova, l’incantevole Palazzo del Bo, c’era la nebbia, faceva freddo. Era febbraio. Era buio. Palazzo del Bo era illuminato dai candelabri appesi fuori.
Lui era venuto a trovarmi dopo l’esame. Era venuto a “prendermi” e insieme facemmo un giro per la città.
Così parla che ti riparla mi disse quella frase. Ma non lo disse per farmi stare male. Per infrangere i sogni di una ragazzina di dieci anni più giovane di lui, che prende 26 in diritto tributario e sogna di fare il pubblico ministero.
Lo disse perché mi voleva bene. Ero contenta quel giorno. Contentissima. Avevo fatto l’esame. Lui era venuto a prendermi. Per me prima dell’amore è sempre venuto lo studio. Il lavoro. Pure adesso. Pure adesso è così.
Ma quella sua frase cominciò a rimbalzarmi in testa. Non ci pensai subito, ma dopo tornando a casa, con il buio, lo scuro, attraversando le vie di Padova, ripensai a quella frase e a cosa maledettamente volesse dire. Vedevo come una parte dei miei sogni infrangersi. Segretolarsi. Come se una parte colasse a picco sul mare vittima di ingiustizie. Ricordo ancora quel naso freddo, quel cappotto fin sotto le ginocchia, quei guanti, gli stessi bucati le dita di adesso, che sanno di fumo e tabacco. Avevo i capelli lunghissimi e ricordo mentre pensavo e il naso si freddava che una nuvola di fumo mi avvolgeva. Avevo una borsa bella, me l’aveva regalata un amico e mi aveva detto: “ti auguro di metterci dentro tutti i tuoi sogni”.
E veniamo a quattordici anni dopo.
Io non ho più i sogni di una ragazzina che studia Legge. La borsa del mio amico è finita in soffitta a casa dei miei. I miei capelli sono diventati corti. Il naso freddo però che gocciola e si incatrama di tabacco c’è ancora. I guanti, stesso modello, ma diverso.
Ma quella frase che continua a rimbalzarmi in testa: “sei proprio sicura che tra giustizia e legalità ci sia sempre coincidenza?”. No. Non sono sicura. Credevo fosse impossibile che qualcuno venisse punito per non aver fatto niente. O per aver fatto ma non preterintenzionalmente.
E invece. Invece so come ci si sente. Ti senti addosso un cappio al collo che stringe stringe stringe ma non ce la fa.
Allora ora non guardo più quei film di detenuti ingiustamente con gli occhi di una ragazzina che crede che il mondo sia yin e yang yang e yin, giorno e notte notte e giorno, bianco e nero nero e bianco.
Ora mi guardo attorno e vedo una miserabile scala di grigi.
Ah per la cronaca: questa in foto sono io.

#sbetti

#nevergiveup


Scopri di più da Sbetti

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.