Pane e Vin: senza specchio non siamo niente

#Storie2020. Nel 2020 i bengalesi guardano il “Pane e Vin”, i radical chic chiedono lo stop delle tradizioni e quelli che gli vanno dietro quattro coglioni.

Allora no. Allora. Allora ieri sera sono andata a vedere il “Pane e Vin”. “Piroea Paroea” come volete chiamarla. Pignarul in Friuli.

Primo anno, dopo 35 anni, che riesco a vedere un Pane e Vin dall’inizio alla fine. C’era sempre qualche intoppo. E il saggio di danza. E la trasferta. E il campionato. E lo spettacolo. E l’esame all’Università. E l’interrogazione al liceo. E il moroso che aveva freddo. R quello che aveva il cagotto. E quello che l’Epifania sembrava rotolare dopo il pranzo di Capodanno. O magari io che ero via per qualche motivo. Così ieri, ieri ho abbandonato tutti e sono andata.

Una tradizione tipicamente veneta dove si saluta l’anno vecchio bruciando la vecchia, che sarebbe la strega, la Befana, e si accoglie l’anno nuovo.

E mi sono stupita nel vedere oltre a tutte queste persone anche due famiglie di bengalesi – quelle che vedete in una delle tre foto – le donne col velo, guardare divertiti e ammirati, lo spettacolo. Addirittura ci stava un padre che lanciava in alto e in basso il figlio; quando le faville andavano su, il figlio lo muoveva verso su, quando andavano giù, via tutti verso giù. E il bimbo rideva sapete. Oh sì, quanto rideva.

E allora mi sono stupita sì, alla faccia di quei radical chic con le sciarpettine di seta e i peli del culo d’oro, che ti fanno credere che per rispetto dobbiamo annullare le nostre tradizioni. Che dobbiamo smetterla. Che dobbiamo rinunciare alle feste. Alle recite. Ai crocefissi.

Molti ci marciano. E molte volte non sono nemmeno gli stranieri. Sono gli italiani zoticoni che si prodigano fautori della pace nel mondo.

Ma insomma.

Insomma allora dicevo, ieri sono andata a vedere il Pan e Vin. Allora sono andata a Noale. Facevano il Pane e Vin davanti la Rocca medievale. Una delle più belle ancora intatte. Bella, bella davvero, se non fosse per quel paese che ormai nonostante ci abbiano provato tutti fatichi immensamente a risollevarsi.

E allora ho visto il Pane e Vin e sono rimasta sorpresa. Sì, guardavo questa folla oceanica di persone con il volto avvolto dai bagliori del fuoco, con le faville che sparavano per aria, con le scintille che scintillavano per terra, con gli occhi luccicanti riflessi dello specchio dell’acqua con riflesso il falò, che mi sono detta: “però, però la gente crede ancora nelle tradizioni, però la gente sente ancora il calore di una casa, il fuoco del camino, il caldo del focolare”. La gente si riunisce ancora attorno a una piazza per vedere una vecchia bruciare. Già.

Perché dovete sapere che la Festa del Pan e Vin ha origini antiche precristiane e pure cristiane. Sì praticamente dal 25 dicembre, dal giorno di Natale insomma, era tradizione festeggiare dodici giorni dopo la dea Diana, dea dell’abbondanza e della cacciagione.

Dodici notti quindi che cadono proprio tra il 5 e il 6 gennaio dove si celebrava la morte e la rinascita della natura, insomma l’epifania di Madre Natura.

Epifania che significa “manifestazione”, “apparizione divina”, “venuta”, riferendosi alla visita dei tre Re Magi.

Nell’antica Roma si identificava la Bifania (greco) con Diana, ma si narra che fu la Chiesa Cattolica che trasformò la Befana in una strega per condannare i riti propiziatori pagani.

E così da lì, per ammorbidirla un po’ ci si racconta che la sera della venuta dei Re Magi, questi chiesero a una vecchietta di accompagnarli alla ricerca del Bambino Gesù. Lei non volle andare, ma presa dai sensi di colpa poi ( questo benedetto senso di colpa inculcatoci dal Cristianesimo) uscì di casa in cerca del pargolo. Ma aveva scarpe rotte. Ed era notte. Mise dentro la borsa alcuni dolciumi, dolcetti, caramelle e per trovare Gesù Bambino si fermò a ogni casetta. Da la legenda che tutti i bimbi iniziarono a preparare la calzetta: tante calzette quanti erano i bambini. Lasciavano le calze appese al camino, alcuni anche scarponcini e scarpe nuove; la Befana arrivava, riempiva le calze, cambiava le scarpe rotte e ripartiva.

Se i bambini erano stati buoni tanti dolciumi. Se erano stati cattivi tanto carbone, quello dei falò appunto.

Di quei falò fatti la notte del 5 gennaio.

Di quel “Brusa la vecia” con cui si brucia l’anno vecchio e si dà benvenuto al nuovo. E così ieri il messaggio è stato propiziatorio. Perché storia vuole che:

“Faive a ponente

Panoce gnente

Faive a Levante

Panoce tante.

Fuive verso sera

Poenta pien caliera

Fuive verso mattina

Poenta molesina”.

Che tradotto vuol dire:

“Faville a ponente

pannocchie niente,

faville a levante

pannocchie tante.

Faville verso ovest

calderone pieno di polenta.

Faville verso est

polenta molliccia”.

E così.

Così, mentre guardavo quel falò inerpicarsi su se stesso, guardavo quell’immagine riflettersi sull’acqua.

E allora mi sono detta: queste sono le nostre tradizioni. Questi sono i nostri punti di riferimento. Queste sono le cose che ci fanno sentire ancora vivi. Vegeti. Umani. Legati.

Perché senza specchio, senza specchio sull’acqua, senza l’acqua riflessa noi, noi non siano niente.

#sbetti

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