Quando stavo all’università ero una di quelli che non è che si smazzassero sui libri. Cioè appartenevo a quella categoria che gli esami li preparavo un mese prima. Ero in grado di ridurmi poltiglia sopra un manuale da 1200 pagine, studiato e ripetuto in un mese. A seconda poi dell’importanza delle cose da assimilare, da apprendere o da imparare, usavo diversi colori. Usavo il rosso per le cose da imparare a memoria. Il blu per gli esempi. Il giallo per i collegamenti. Il verde per le cose da ricordare. L’arancione per quelle cose che non potevo permettermi di dimenticare ma che per imparare avrei dovuto assimilare. Così quando avevo un momento libero. Per dire quando andavo al cesso. Mi mettevo davanti allo specchio e mi immaginavo la scenetta. Io ero Caio. Lo spazzolino era Sempronio. E il dentifricio era Tizio. Così mi immaginavo gli istituti di diritto dove gli attori e i convenuti erano spazzolini dentrifrici shampoo per capelli balsamo. Cercavo di immedesimarmi in quella situazione, cercavo di renderla concreta e di apprenderla a più non posso. E infatti. I migliori esami sono stati quelli dove non imparavo a memoria ma capivo le cose. Poi la mattina dell’esame partivo. Mi lavavo i capelli. Indossavo il mio zaino. Mi fumavo dieci sigarette e facevo l’esame. La maggior parte delle volte passavo. A volte i voti erano pure alti. Altre volte bassi. Ma andava bene lo stesso.
Ma all’Università, sono sempre stata una spugna. Sì. Mi sedevo a lezione. Ascoltavo. Memorizzavo. Cercavo di capire. Di immaginarmi la situazione e apprendevo.
Assorbivo tutto. Modi. Toni. Sguardi. Segni tipici. Caratteri. E mi affascinava soprattutto il mondo culturale che quel luogo evocava.
Allora cercavo di far tesoro di tutto. Unendo le cose. Coniugando i miei interessi. Leggendo libri. Ascoltando le persone. Partecipando anche a quegli incontri che la gente mi diceva: “ma dove vai a perdere tempo”. E invece. Invece io andavo. Ne avevo bisogno. Avevo bisogno di nutrirmi della vita delle persone. Delle cose. Delle esperienze degli esseri umani. Avevo bisogno di stare a sentire. Di capire. Di ascoltare parole messe in fila che poi a casa ripetevo e riascoltavo nella mia testa. Avevo bisogno di ingoiare racconti. Di sentire parlare di voci. Di vissuti. Ero bulimica di arte. Di cultura. Di musica. Volevo che nel mio cervello ci stesse oltre all’Università anche tutto il mondo attorno.
E infatti.
Allora ricordo che il primo giorno di lezione, me lo ricordo come fosse ora, il professore di Filosofia del Diritto, ancora lo ricordo, ora ormai morto – Dio quanti anni – Francesco Gentile, ci disse: “fate sempre in modo, ogni giorno della vostra vita di vedere qualcosa di bello”.
Il professore si riferiva a un libro. A un testo. A un racconto. A un museo. A un’opera d’arte. A una musica. A un panorama. A un’isola deserta. A una rappresentazione teatrale. Sì riferiva a tutte quelle cose che ti lasciano il segno. Che quando la sera vai a dormire e guardi le luci entrare dalla finestra pensi: “però che bello oggi, è proprio vero che il bello di una casa, come diceva Renard è uscire e rincasare”.
Già. E allora da quando quel mio professore ci disse quella cosa, di tempo ne è passato. Varie esperienze abbiamo vissuto. Alcune volte belle. Altre volte dolorose. Fa parte della vita. Del sentirsi già vecchi ma ancora giovani a 35 anni. E negli ultimi anni mi rendo conto di quanto lui avesse tremendamente e e splendidamente ragione.
Perché non passa giorno che non mi cibi di emozioni. Che non mangi parole. Che non le vomiti. Che non mi immerga nelle storie. Non passa giorno che non ascolti una canzone. Che non legga una pagina di un libro. Che non alzi gli occhi al cielo e dica: “cazzo è proprio bello”.
#sbetti