Sono stanca. Tanto stanca.

È stata una lunga giornata. Ma vi scrivo lo stesso. Perché #Venezia non può aspettare.

E perché secondo molti veneziani è solo questione di tempo. Tempo.

“Signore questa nave è fatta di ferro, le assicuro che può affondare”, diceva il costruttore del Titanic a chi chiedeva di aumentare la potenza delle turbine.

Già.

Allora questa mattina mi sono svegliata. Doccia. Mi sono vestita in fretta e furia. Ho sentito la redazione. Stivali di gomma. Sciarpa. Guanti. E sono andata un attimo al bar a fare colazione. Il bar di una mia amica veneziana.

Dentro di me però, avevo quelle immagini di una Venezia devastata.

Me ne ero andata a letto guardando quella Venezia divelta, sommersa. Quella Venezia che sprofonda, che affonda. Quella Venezia sommersa dall’acqua. Una Venezia piena di sirene. Di lampeggianti. Una Venezia che lentamente sprofonda. Che lentamente muore. E per cui nulla si può fare.

“È solo questione di tempo – mi ha detto questa amica mentre mi serviva il caffè – prima o poi Venezia sparisce”.

Allora lì, lì mi sono venute le lacrime, consumavo il mio caffè cercando di non farmi vedere ma gli occhi non mentivano. Allora percorrendo la strada che mi portava a Venezia questa mattina, la strada non era più la stessa.

Non era la stessa strada di quando prendi il treno per andare nella città lagunare e ti trovi a dover fare un servizio, ad andare in tribunale, a prender qualche carta, a intervistare qualche magistrato, o di quando ti trovi per qualche appuntamento, o semplicemente quando ci vai per fare un giro. No.

Questa mattina pareva come se quel treno mi portasse in una città sospesa nel vuoto.

Al di là della terra. Al di là dell’aria.

In mezzo all’acqua.

Questa mattina pareva che quel treno mi portasse in una città sospesa. Che viaggiasse su binari sopraelevati. Che entrasse dentro le nuvole. Dentro la pioggia. In mezzo all’acqua. L’acqua. L’acqua. L’acqua. Questo benedetto elemento. Questo maledetto elemento. L’acqua che ti travolge. L’acqua che ti entra dentro. L’acqua che non risparmia niente e nessuno. Perché il fuoco lo puoi spegnere. L’acqua. L’acqua cosa fai.

Allora dicevo sono andata a Venezia col treno e per tutto il viaggio mi sembrava di stare sospesa. Non vedevo l’ora di scendere perché avevo tremendamente bisogno di fumare una sigaretta.

A Venezia scendo dal treno. Mi accendo la sigaretta. Mi incammino con i miei stivali pesanti e appena inizio a vedere i negozi pieni d’acqua con la merce a terra, con la roba da buttare, appena inizio a vedere le mani sopra i capelli della testa della gente disperata, mi sale un nodo in gola.

Mi viene da piangere. Non mi sento veneta. Non mi sento veneziana. Ma il legame con questa terra è talmente forte che squarcia l’anima.

Ho le lacrime agli occhi. Un ragazzo accanto a me se ne accorge e mi dice: “ a San Marco acqua alta”. Ho il volto rigato. Mi accendo un’altra sigaretta. Credendo che il fumo e la sigaretta stretta tra le dita potesse alleviare i pensieri. Ma i pensieri. I pensieri si fanno sempre più frequenti. Sempre più potenti. Cominciano a martellare sulla testa a ogni sbuffata di sigaretta. Il volto si cruccia. Lo sguardo si fa più severo. Cattivo.

Una città che è la più bella al mondo, penso, ridotta. Ridotta in questo stato.

Ma come è possibile. Ma come può essere. Come può essere che un gioiello così bello che sta sull’acqua del mare sprofondi. Si anneghi. Si affoghi.

Così ho iniziato a immaginare come potesse essere Piazza San Marco con le sue statue, i suoi merletti, le sue guglie, i suoi pinnacoli, i suoi cavalli e leoni alati, sommersa dall’acqua. Ho iniziato a pensare a come potesse essere una Venezia piena di calli negozi bar boutique opere d’arte monumenti giù giù nel fondale del mare. La faranno vedere in qualche documentario ho pensato e ci metteranno i proiettori con le luci, e ci andranno giù con i sommozzatori e la sveleranno ai nostri posteri. Questa era una città emersa ci diranno.

Una Venezia che non esiste più. Almeno sulla terraferma. Sott’acqua sì. Nel fondale.

E allora ho iniziato a immaginare la Basilica sommersa dall’acqua. Con l’acqua del mare che le sbatte addosso. Che la accarezza. Che la avvolge. Che la bagna. Ho iniziato a pensare al campanile, il Campanile di San Marco dove mai potesse arrivare, se potesse spuntare dal mare, dall’acqua. Perché la sensazione è che Venezia affondi. E che rimanga sotto il mare.

Ma poi. Poi l’immaginazione è stata interrotta dalla realtà e lì. Lì ho dovuto fare i conti con le persone.

E allora sono entrate dentro le loro botteghe. Dentro i loro negozi. Dentro le loro case. Mi hanno accolto. Non avendo niente. Nemmeno più un cesso dove pisciare. Nemmeno più un goccio d’acqua da bere. Nemmeno un caffè. Qualcuno mi ha offerto una sigaretta. Ma ho rifiutato. Non si accettano sigarette da persone che stanno vivendo situazioni drammatiche.

Ecco. E qui. Qui ho visto negli occhi la disperazione.

E questa è un’altra storia che vi racconto tra poche ore sul #Giornale.

Ora vado a letto. Sperando che il caldo delle coperte allevi questi senso di freddo. Di bagnato. Di umido. Di marcio. Che si respirava oggi, nella città più bella al mondo.

#sbetti


Scopri di più da Sbetti

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.