
Quando sono entrata e l’ho vista era di spalle. Era seduta lì, su una seggiola. Aveva i capelli sciolti che le scendevano lungo la schiena. Era piccola. Minuta. Piano piano mi sono avvicinata. Con quel timore di quando stai per fare qualcosa e sai che potresti rompere i cocci. Un po’ come quando ti alzi di notte e per non svegliare la persona che dorme con te, ti tiri su quatta quatta, la luce spenta, procedi a tentoni. Trattieni il respiro. Mi sono seduta accanto a lei. E le ho stretto la mano. Un sorriso le ha illuminato il volto. E lei ha cominciato a parlare. Aveva gli occhi che parevano due gocce di cioccolato. Brillavano. Luccicavano dalla voglia di raccontarmi la sua storia. Tra le dita teneva un fazzoletto. E tremava. Lei comincia a parlare. A raccontarmi. Ma io la blocco. “Non voglio sapere niente – le dico – Dimmi tu. Capisco che per te è doloroso. Vuoi parlarmi ora. O direttamente davanti la telecamera? Perché se mi parli ora, lo devi ripetere”. Lei mi guarda e mi fa: “Allora no. Hai ragione. Grazie. Una volta sola basta. Così come viene”. “Certo, tutto naturale”, le rispondo. La faccio posizionare. In penombra. Di spalle. E grazie al tatto degli operatori che erano con me Massimo Belluzzo Alen Bašić e Luigi Selvestrel la mettiamo a suo agio. Poi, lei comincia a raccontare. La chiameremo Leila. Nome di fantasia. Mi racconta che viene da un matrimonio combinato. Al suo Paese si usa così. Lei è musulmana. Un giorno, quando aveva compiuto 18 anni, le sue famiglie decisero che era arrivato il momento di convolare a nozze. Ma il suo destino era già stato scritto prima. Suo padre aveva falsificato la sua firma per farla sposare con quell’uomo che lei aveva visto una sola volta. Un uomo violento, un padre padrone. Un uomo che la faceva sentire una nullità. Che le diceva quando uscire, come vestirsi, quando e come parlare. “Mi diceva non ridere. E psicologicamente è dura perché ti senti sempre sbagliata”. “Un giorno – continua lei – ho detto a mio padre che io non sono una mucca da vendere”. Lì mi sono venuti i brividi. Avevo tanta rabbia. Avrei voluto alzarmi dalla sedia e andare a prendere quell’uomo e farlo sentire come lui aveva fatto sentire lei. “Una sera – mi racconta – è arrivato a usare il coltello. Io gli ho detto: chiamo i carabinieri. Lui mi ha risposto: chiamali. Tanto arrivano prima le ambulanze e vi trovano tutte e tre – le sue figlie ndr – morte”. Leila in quel momento davanti a me, piange. Le lacrime le rigano il volto. Una goccia le cade sulla mano. Scende piano piano. E tocca terra. Lei si soffia il naso. Tira su. Io le metto una mano sulla gamba. Vorrei abbracciarla in quel preciso istante. Ma le telecamere. Ah le telecamere. Lei riprende il racconto. E mi dice che un giorno ha trovato la forza di uscire da quel matrimonio d’inferno. Sono state le sue figlie a farla scattare. “Mamma – le ha detto una figlia – noi non siamo arrabbiate con lui. Ma con te. Perché ci stai dicendo che dobbiamo imparare a sopportare”. Quella parola “sopportare” l’ha fatta svegliare. Ora Leila a fatica si è rifatta una vita. Ha tentato di prendere su i cocci e a quei cocci sta dando una nuova forma. Ma le ferite rimarranno per sempre. Quelle non le rimargini mai. Quelle ti penetrano dentro e riesci solo a buttarle fuori a singhiozzi. Poi dentro ricrescono. “Io so che lui tornerà – mi ha detto – e mi farà del male”. Perché lui, denunciato più volte, non ha nemmeno un divieto di avvicinamento. Quando ci siamo lasciate, sono corsa sul cancello. L’ho abbracciata. Avrei voluto dirle mille cose. Ma non ne ho avuto il coraggio. Le ho solo detto Grazie. La sua testimonianza in esclusiva a Fuori dal coro
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Grazie al montaggio di Luca Rubbo
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