Lei è Giulia Brambilla. Ventisei anni. Di Milano. Ha studiato a Venezia. Si spalma creme in faccia ed è felice.
Allora per #Storie2020 adesso vi racconto la storia di Giulia. Sì. Dunque ieri notte ho fatto un post. Uno di quelli che tratta di giovani che se ne vanno all’estero, di ragazzi insoddisfatti che prendono partono e cercano di costruirsi un futuro migliore. Così lo scrivo di notte come di consueto accade quando posso fumarmi la sigaretta sul terrazzo e dar il via alla danza delle mani, quando la mattina dopo il primo commento è quello di una ragazza. Una ragazza che ho conosciuto virtualmente per un pezzo che avevo fatto qualche anno fa per il Gazzettino fa su un fatto di cronaca.
Una ragazza che studiava a Ca’Foscari e che veniva da fuori regione.
Una di quelle ragazze curiose, con tanti sogni nel cassetto, venute nel Veneto per studiare lingue e poi magari desiderose di intraprendere un percorso professionale. E invece. Invece cosa accade.
E allora vi scrivo il commento perché come l’ha scritto lei è semplicemente perfetto.
“Ciao Serenella – scrive Giulia – ci siamo conosciute “virtualmente” qualche anno fa e mi avevi fatto una breve intervista. È passato tempo, quindi non so se ti ricordi, ma io porto con me la gentilezza e l’interesse con il quale mi hai posto domande su un tema non molto felice”. Già. Un fattaccio.
Poi continua.
“Leggendo questo tuo post – continua Giulia – mi sono sentita chiamata in causa, e per questo vorrei condividere anche io la mia esperienza.
Sono laureata in lingua giapponese e ho vissuto per circa un anno in Giappone per approfondire la lingua. Tornata in Italia non ho trovato altri lavori che non fossero la commessa. Con tutto il rispetto, ma non era proprio ciò che volevo fare. Mi sono sentita dire che sono viziata, che voglio troppo, che dovrei accontentarmi di quello che trovo.
Ma mi sono detta no.
Mi sono detta che non ho studiato 4 anni per marcire in un qualche centro commerciale.
Mi sono detta che la mia occasione prima o poi sarebbe arrivata.
Ho aspettato.
Un anno.
Due.
Niente.
L’Italia è un paese vecchio, non all’avanguardia. Come hai scritto anche tu, è un paese che pensa alle cose futili, a come non far rammollire la crosta dei cannoli siciliani, alle sardine, a dire il bastian contrario di quello che l’altro prima di te ha detto.
Quindi sostanzialmente ho lasciato tutto. Non ho lavorato per due anni e sono rimasta a casa”.
Così uno dice: “eccola là, a casa, magari ad aspettare il reddito di cittadinanza”. E invece. Invece no. Invece no. Perché a volte le cose migliori vengono dai momenti di pausa. Dagli stacchi. Dai ritorni. Dalle perdite di tempo. Dalle angosce. Dalle idee che maturano quando il ventre è rilassato e lo stomaco non è contorto.
E infatti per Giulia inizia un periodo felice.
“Mi sono goduta – continua – le migliori giornate in compagnia dei miei cani. Ma allo stesso tempo mi sono messa a recensire prodotti coreani per la cura della pelle”.
Prodotti coreani per la cura della pelle?!
Sì! “Un hobby, insomma – dice Giulia – per connettermi con persone da tutto il mondo e condividere la mia passione”.
L’intraprendenza. La spinta dei giovani. Sapere che hai in mano il mondo digitale che ti connette col resto del mondo. Un po’ come ci eravamo conosciute io e lei.
E qui viene il bello.
“Beh, nel giro di qualche mese ho iniziato a ricevere proposte di lavoro dalla Corea – racconta Giulia – Io che manco so parlare in coreano.
Un anno dopo, ora, sono fisicamente qua.
Studio, imparo la lingua, mi faccio il mazzo ogni giorno e vinco borse di studio che in Italia non ho mai vinto perché vengono sempre date un po’ a caso.
Lavoro.
Ho passato le feste (se così si possono chiamare, dato che sono stata a casa solo il 25-12 e l’1-1) dall’altra parte del mondo, costantemente in videochiamata con la mia mamma e il mio papà che mi mancano da morire.
Mi manca il mio paese, mi manca il profumo del pane, mi manca la pasta al sugo. Mi manca l’Italia.
Eppure non posso tornarci perché so che se lo farò, nuovamente, non ci sarà un posto per me.
E sono arrabbiata. Sono estremamente arrabbiata perché darei tutto per poter vivere nel mio paese, lavorare, stare con i miei cani, svegliarmi la mattina e parlare nella mia lingua, ma non posso farlo.
Perché si scende in piazza per gli immigrati (condivisibile o meno), ma non si scende in piazza per gli emigrati. Per noi, italiani, che non possiamo vivere in Italia”.
Ecco.
A voi lascio le conclusioni.
A voi lascio le conclusioni per questa Italia col tacco, che dà un calcio nel culo ai giovani e non fa niente per farli tornare.
#sbetti