LETTERA A CHI INDOSSA IL VELO 

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Sabato sera sono andata al Summer Festival. Indossavo un tubino nero.
A dire la verità sì, in effetti era un po’ corto ma non da esagerare.
Era corto. Stretto. Nero. Punto.
Allora parcheggio l’auto, scendo dalla macchina e mi incammino verso la festa. Davanti all’ingresso un signore di chiara origine araba siede dentro un’auto. 
Sul sedile posteriore sta una donna coperta da un velo. A fianco a lei due bambini e davanti sta un uomo.
Il signore al volante mi fissa. Mi guarda.
Mi punta dritto uno sguardo sprezzante e spregevole come fossi un insetto da schiacciare. Da condannare.
Poi lentamente i suoi occhi scendono lungo il mio corpo.
Mi guarda le gambe, le fissa, le assaggia.
Il suo sguardo risale fino a incrociare il mio. Mi guarda come se fossi una cosa, come fossi un oggetto da denigrare, come fossi una scatola da nascondere e da aprire solo in determinate occasioni.
Come fossi un soggetto sbagliato, foriero di desideri respinti, di voglie ripudiate e di cose proibite. Condannabili. Esecrabili.
Io lì per lì non riesco a concentrarmi nient’altro che sul suo sguardo.
Poi presa da tanta fierezza e sfida, alzo di nuovo la testa, punto dritto gli occhi verso di lui e me ne vado, fiera.
Perché vedi caro.
Io sono fiera. Fiera.
Fiera. Fiera di essere nata in un paese dove le donne possono indossare la minigonna e mettersi le magliettine d’estate, dove possono andare in bicicletta e sentire il profumo e il frusciare del vento sui loro capelli senza avere il volto occluso da un laccio di stoffa.
Sono fiera di essere nata in un paese dove è consentito vestirsi da donne, senza doversi circondare il corpo con qualche carta pasquale, qualche addobbo o telo da mare.
Sono fiera sì.
E mi viene una tristezza assoluta.
Una tristezza infinita sapere che lì sotto quei veli ci sono splendidi ragazze costrette a incappucciarsi perché ormai qualcuno ha fatto credere loro che sia giusto così.
Ogni volta che le guardo sembra mi dicano “Beata te che puoi vestirti così”. Qualcuna invece più piena di rabbia si mostra quasi contenta di indossare il velo.
Io ogni volta, in mezzo a quel telo, cerco di trovare un brandello che faccia vedere la materia di cui siamo fatte.
Ma ogni volta è solo stoffa e zero sorrisi.
Loro, costrette a coprire ogni minimo spiraglio di carne, ogni minimo spiraglio di vita, costrette a indossare teli, pantaloni, scarpe chiuse anche quando fuori ci sono 43 gradi e l’umidità riempie ogni millimetro cubo d’aria, mentre tu indossi i bermuda e guardi le altre.
Credo ci voglia tanto coraggio a fare quello che fai tu.
Ma se solo volessimo ce ne vuole tanto, ma veramente tanto poco per ribellarsi.
Perché basta un attimo. Un solo attimo. L’attimo di dire “io sotto questo telo non ci sto più”.
#buonanottesbetti

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