Trieste, Porto Vecchio, febbraio 2025

Soffia solo la bora in questo lugubre posto dove ogni brandello di umanità sembra essersi perso nel vento. Enormi palazzi abbandonati che svettano verso l’alto e che non lasciano intravedere nemmeno l’oscurità del cielo.

È notte fonda. E il vento emette sibili di inquietudine. Fischi acuti e sottili. Strozzati e angoscianti che riecheggiano le grida di disperazione di chi dorme in questo posto. Saranno circa quattrocento. Siamo a Trieste, davanti al mare, nei magazzini abbandonati del Porto Vecchio.  Un uomo viene incontro, in mano ha una lattina di Coca Zero. Gli occhi grandi, neri come i capelli che non lava da chissà quanti mesi. Indossa un giaccone colore del fumo, per ripararsi dal gelo. Perché qui stanotte fa veramente freddo. Freddissimo. Un freddo pungente che sega le gambe e tronca il respiro. In spalla ha uno zaino con tutto l’occorrente.

«Ciao hai bisogno di qualcosa? Tu dormi qui?». «Sì dormo qui», dice mentre invita a entrare. Guidati dalla luce della torcia del telefono, insieme a questo ragazzo giunto dall’Afghanistan raggiungiamo il primo piano. Sono palazzi enormi. Le scale ripide. A terra vetri rotti. Le finestre qui non sono più finestre. Sono buchi di groviera arrugginita. Le porte non sono più porte, ma macigni cigolanti sospesi nel vuoto. Lungo uno stanzone l’odore rivoltante ributta indietro. A terra feci, liquami, rifiuti di ogni tipo, cenere e sporcizia. Un topo, grande quanto un gatto, passa davanti. Il ragazzo afghano si gira,  sorride, poi in un inglese sgangherato commenta: «Don’t worry, it’s normal here, this is my life», «tranquilli è normale qui, questa è la mia vita».

In un’altra stanza a terra c’è del sangue. Qualcuno si è tagliato. Poco più in là un piatto. Qualcuno ha appena cenato. Il sugo ancora rosso e uova rotte. Una forchetta conficcata nel pavimento. Il ragazzo afghano, assieme ad altri suoi amici, guida verso quella che è la loro stanza da letto. L’hanno separata con una tenda incollata a una porta cigolante sbilenca. A terra vestiti e materassi alla rinfusa. I pagliericci sono accatastati l’uno sopra l’altro. 

Qualcuno per dare una parvenza di vita ha appeso dei pupazzi al soffitto. Uno somiglia a un drago. Rosa. Non sputa fuoco ma pare voglia fuggire da questo inferno. L’idea di una nuova vita che non arriva, di queste vite fantasma a metà tra il presente e il futuro e con un macigno come passato. Poi un ragazzo pachistano chiede una sigaretta. Ha gli occhi spenti. Rassegnati a quel marciume. Un altro, invece, negli occhi ha la voglia di farcela. «Noi tanto freddo qui», dice un ragazzo marocchino. Parla bene l’italiano, vorrebbe studiare, lavorare, ma ogni giorno la questura di Trieste lo rispedisce indietro e lo lascia in giro. «Non mi danno i documenti – dice – non lo so perché. Ogni giorno li danno solo a poche persone. Io dormo qui da due mesi, ma sono in Italia da cinque anni». «E quanto ci hai messo?». «

In effetti, il giorno dopo con la luce del sole a terra si vedono i rimasugli di cenere e carbone di chi la notte ha provato a cercare un po’ di tepore. Un posto a rischio incendio, dato che alcuni pavimenti son di legno. Un ragazzo afghano conduce nel loro “bagno”. Un bugigattolo di quattro metri per quattro, con una porta bianca di compensato. Qui hanno fatto la loro toilette. Il loro water è il pavimento. Feci, mosche, zanzare. Un ragazzo marocchino ci chiede di non fotografarlo, la madre non sa dove vive e non vuole recarle dolore. «If my mother sees this place… oh no no –  se mia madre vede questo posto.. oh no no».

Qui, a soli cinque minuti dal centro, tutti sanno, tutti vedono, ma nessuno dice niente. Il silenzio colpevole delle istituzioni. Di chi sa ma preferisce non vedere. Il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, è tranciante: «Sindaco ma qui dormono in queste condizioni?». «E quindi? Non tolgo agli italiani nulla per dare a questi». In realtà «il posto per farli dormire – spiega Tito Danti dell’associazione rifugiati di Pesaro Urbino – ci sarebbe anche, ed è qui in via Gioia a pochi metri. Ci sono stabili per accogliere queste persone, ma il sindaco non vuole».

Si è fatto tardi, il sole cala a picco sul mare. E regala uno spettacolo mozzafiato. Stride molto con questo posto che sa di morte. Un uomo chiede: «Non ti senti fortunata?», «Per avere un tetto sopra la testa?» «No. Per essere nata dalla parte giusta del mondo».

Serenella Bettin, L’Espresso, 7 marzo 2025


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