Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio. Arrivo a Bologna che è mattino. Devo girare una casa occupata ma nel frattempo mi scappa. E devo andare in bagno. Entro in un locale. E per accedere al bagno c’è bisogno della chiave. Sulla porta noto che c’è una storiella sul Tiro di Bologna. Il tiro è quella cosa per cui noi diciamo suona, invece a Bologna ancora dicono “Tira”, e sul campanello ci sta scritto proprio questo. Il modo di dire deriva dal fatto che una volta per suonare si usava una cordicella. Mi accorgo che sulla tavoletta del water c’è una mosca. E mi fa parecchio schifo. Esco. Bevo il caffè e ci mettiamo in cammino. Vado su per le montagne. Su per i monti. Su per le colline. Ci sono i tornanti. Cerco di concentrarmi sulla strada. Dicono che se guardi un punto. Sempre quello. Sempre fisso. Non ti fa male la macchina. Mi guardo attorno perché fissa e immobile non riesco a stare e attorno a me si apre un ventaglio di colori, una tavolozza di acquerelli dai colori pastello che pare che ci abbia messo le mani un pittore ingenuo. Ci sono alberi abeti pioppi cipressi verdi rossi gialli alcuni mi sembrano anche violacei. Anche l’accendino che ho comprato è violaceo. E forse non avrei dovuto comprarlo.
Arriviamo su in cima e ci fermiamo con l’auto perché ci stanno aspettando gli uomini della scorta. Siamo lungo i colli bolognesi. Andiamo su e ci appostiamo. Ma non appena arriviamo ecco che la donna esce. Ha il volto del colore del marmo. Vestita con una maglia aderente che le fa intravedere i seni, indossa dei fuseaux che paiono tinti dei colori pastello da un pittore schizofrenico, in testa indossa una cuffia.
Gli occhi marroni incavati non lasciano trasparire niente di buono. Sembrano quelli di una cavalletta che si apposta sul muro di casa in attesa della propria preda. Attorno a lei ci sono i cani. Scendo dall’auto facendomi violenza. I cani sono decisamente troppi per me. Lei ne ha cinque liberi e in più ci sono tre cani grandi brutti e grossi nel giardino accanto che continuano ad abbaiare forsennatamente. Non penso ai cani. In una frazione di secondo cerco di scindere la mente in due parti. La prima deve rimanere concentrata su quello che voglio dire e chiedere alla donna. La seconda parte cerco di distrarla dal pensiero che i cani ci possano far del male. In un’altra frazione di secondo cerco di staccare la mente dal corpo. Non voglio permettere alla paura dei cani di paralizzarmi. Le gambe vanno da sole. Avanti come un caterpillar la affronto. Le chiedo perché diamine continui a stare in quella casa. E lei non risponde. Torna indietro per la stradina e io la seguo. Ma in un baleno. Ecco che mi volto e vedo i cani ringhiare. Azzannare la rete. Azzuffarsi. Scagliarsi contro. Lei fa per andare ad aprirli come a metterci paura e in un attimo mi passa davanti la vita. Mi vedo azzannata. Acciuffata. Aggredita. Cerco di non pensarci e mi scatta qualcosa che la fa sclerare. Lei sclera. Inizia a inveirci contro. Alza le mani. Mi minaccia. Ci minaccia. Ci dà dei figli di put. Figli di troi. Teste di cazz. Chi cazz siete. Mi avete rotto i cogl*. Le dico che si dovrebbe vergognare a stare in una casa che non è la sua. E in quel momento, come a voler sfogare tutta la sua rabbia, alza il pugno per sferrarmi un gancio giusto in faccia. L’uomo della scorta si mette in mezzo, tra me e lei, e il pugno colpisce il collo di lui. Dopo il parapiglia, ce ne andiamo. A me tremano ancora le gambe. Più che altro per i cani. Di lei sostanzialmente me ne fotto. Ci è venuta fame. Entriamo in un ristorante. Io spizzico qualcosa. Ancora lo stomaco si deve aprire. Ordino il caffè americano, ma l’oste di quella osteria incallita non riesce a trasportare il vassoio e il caffè finisce tutto sparso. Lo guardo. Lui mi guarda. Gli faccio una faccia schifata. Lui mi dice: “È un po’ gocciolato”.
Sì decisamente. Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio.
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