In fila come i dannati. La donna che mi sta davanti versa l’acqua al padre. Gli apre dolcemente la bocca e cerca di farla scivolare giù lentamente lungo la lingua. Il padre avrà all’incirca 90 anni. Il numero 90 ti fa pensare a un omone bello e grosso. E invece è un omino piccolo piccolo incanutito dal dolore, svezzato dall’orgoglio, piegato dalle piaghe del corpo. Ha le braccia esili esili. Le gambette saranno la metà delle mie. Fissa il pavimento. Chissà, penso, forse ripensa alla sua vita. A quella vita andata e passata, a lui che ha cresciuto figli, che ha amato, lavorato, sudato, a lui che ha messo su famiglia, Dio come faccio a pensare di essere ora senza forze, inerme, con quella figlia a cui davo da mangiare e da bere e ora è lei che dà da bere a me. Il suo viso sembra quello di un bambino. Ma invecchiato. Smunto.
Qui è mezzogiorno in punto. La situazione si fa calda. Complicata. Il traffico è tanto, al pronto soccorso arriva una barella dietro l’altra. La signora che mi sta accanto invece ha preso una botta in testa. Ha paura di avere un trauma. Vuole alzarsi ma l’infermiera le dice di stare ferma, che non si sa mai cosa ti possa succedere. La donna che è appena entrata invece ha una cannuccia piccola piccola che le parte dal naso e le arriva fino alla bocca. Grazie a quella può respirare. È cardiopatica. Sulla bombola che l’infermiere appoggia sopra quel letto coperto da quelle gambe di un pigiama sgualcito, c’è scritto ossigeno. Le barelle. Quante barelle. Qui le barelle arrivano come le valigie ai nastri trasportatori dell’aeroporto. Gli infermieri con una calma e una pazienza formidabili le prendono, le spostano, le accostano, fanno retromarcia, vanno avanti, si inceppano, scavalcano. Ci sono anche quelli che sollevano i malati e – uno – due – tre – al mio quattro – giù sulla barella.
E il paziente sprofonda. Questa è l’ora dei dannati, di quelli che si tengono aggrappati alla vita, di quelli che cercano cure, ripari, calori, salvagenti dell’anima in questo mare di dolori. Sofferenze atroci. Acute. Che scavano dentro. Che ti entrano appresso. Te le senti addosso. Ti rimangono aggrappate una settimana e più tenti di scacciarle più non se ne vanno. Un uomo è arrivato, aveva il catetere attaccato, lo sguardo perso nel vuoto. Poco dopo è arrivata la figlia: “Dov’e mio padre? L’hanno ricoverato”. C’è anche il giocatore di basket che dorme lì sul giaciglio di un letto preparato all’ultimo, le scarpe giacciono a terra come a dire: ora è tempo di riposare, domani starai meglio. Si alza, va in bagno, ma sbaglia porta.
C’è anche il pescatore che stava pescando sul fiume, che si è svegliato stamattina all’alba e che si è inciso un mignolo, gli si è aggrappato l’amo e Dio fa un male cane. Non vuole l’anestesia. Provano a estrargli quel pezzo di ferro così a mani nude dipingendo ondate di dolore. Ma niente. Le grida sono enormi. Immense. Le senti che si propagano come quando arrivano i cani che si gettano sulle prede, come quando l’uomo uscì dalle caverne, un ululato travolgente, inquietante, un suono fracassante, e lui che impreca in una “Babilonia di lingue” che non si erano mai udite. È troppo. Impossibile resistere. Alla fine optano per l’anestesia. E lui si addormenta nel mentre arriva un’altra sirena. Sarà la cinquantesima in 50 minuti. Le sirene spiegate. Gli uomini martoriati sulle barelle. Chi sulle stampelle. L’infermiere che controlla che sia tutto a posto, che la paziente sia legata giusta, quello che prende i dati, quello che li trascrive sul computer, quello che li detta ad alta voce, quello che arriva e ha bisogno di un consiglio, il computer che si inceppa, la bambina che piange, il figlio preoccupato per la madre, il medico che visita, che prende i valori. Gli esami del sangue, l’appello nella sala d’attesa dei condannati alla penitenza, di questa vita che è sofferenza angosce dolore.
Stupisce l’organizzazione del personale nel caos allucinante. Anche le guardie. Dio le guardie giurate, accolgono i pazienti che rimangono in attesa cercando di capire per quale motivo qualcuno ci ha messo al mondo, se poi dobbiamo stare male, soffrire, curare malattie.
Esco. La gente è fuori. Ci sono i familiari dei pazienti. I parenti. Gli amici.
C’è la gente che fa la spola. Lo senti il profumo di tabacco dei tabagisti incalliti, anestetizzati dal dolore per i propri cari che fumano come ciminiere.
Qui è un andirivieni continuo. Per medici e infermieri è normale trattare i malati. Prendersi cura degli altri. È normale aiutare chi ha bisogno. Quello di risolvere i problemi ce l’hanno nel sangue, qualsiasi persona deve trovare una risposta. Un esito, una diagnosi. Qualsiasi persona non si lascia per strada.
Così, questa sera poi sono andata in un centro Tim e il destino ha voluto che incrociassi una signora col bastone. Non riusciva ad aprire la porta? A fare il gradino. Le ho porto la mano.
Mi ha detto: “No, ho paura di tirarti giù”.
Le ho detto: “Non importa. La tiro su io”.
sbetti

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