
Questo uomo si chiama Giuseppe Bassi. E il 3 febbraio ha compiuto 103 anni. Il giorno prima sua nipote di anni ne ha fatti 3.
Nella stessa casa vivono due persone di 100 anni di differenza. Nonno e nipote. Nipote e nonno. La vita che evolve. Il sangue che scorre. La vita che continua. Cresce. Invecchia. Si trasforma.
Ancora ricordo quando ho conosciuto Giuseppe. Lì. Nella sua casa a Villanova dì Camposampiero nel padovano. Mi è venuto ad aprire la porta che sgambettava dappertutto. Sembrava un grillo con vent’anni di meno.
Non avevo manco capito fosse lui. “Io sono qui per Giuseppe”, dissi. “Giuseppe? Sono io Giuseppe”. “Lei? Ma lei quanti anni c’ha?”. “Cento”.
Cento ne aveva all’epoca quando lo conobbi. Lui, uno degli ultimi sopravvissuti ai gulag russi, uno di quelli che ancora ricorda gli episodi di cannibalismo, venne prelevato il 24 dicembre 1942 e ne uscì il 7 luglio 1946.
Tambov, Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino. Quattro anni di prigionia si fece a pane acqua e cassia, una minestrina che costava poco.
Rimasi un pomeriggio intero in quella casa. E poi ci tornai ancora. E ancora una volta. E durante il covid ci incontrammo anche in videochiamata.
Giuseppe è un fiume in piena. Il suo era racconto un continuo, infinito, scorrevole nel tempo, perdendosi dentro le pieghe, le piaghe e il dolore di quel ricordo.
Con orgoglio mi raccontava di quando si salvò dai gulag grazie a un anello. Il tempo per me sembrava essersi fermato.
Stavano per fucilarlo. Mi raccontò anche che grazie ai suoi disegni sulle cartine di sigarette – alcuni ora conservati nel museo del campo di Suzdal- trovarono le fosse comuni.
Era un continuo zampettare, saettare, andare a recuperare quel pezzo di carta, quel documento, quell’anello, quell’orologio da polso che lui conserva con tanto orgoglio.
Quando me sono andata. Lui mi ha stretto la mano. E mi ha detto: “Grazie”.
Gli ho risposto. “No. Sono io che ringrazio lei”.
Sono io che ringrazio lei.
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