È stata dura girare questo servizio. È stata dura montarlo. È stata dura guardare quella donna e raccoglierne atrocità sofferenze e dolore. Quando l’altro giorno ho riguardato il servizio per controllare che filasse tutto, ho pianto. Ma soprattutto è stata dura per lei, Rosina. 

È la parola che pronuncia di più. “Rivoluzione”. La pronuncia per indicare il disordine e lo scompiglio del tavolo in cucina, la confusione in salotto, il caos sopra le scale. La pronuncia per indicare il soqquadro di quella camera da letto rimasta così ancora da quel 20 luglio 2016, quando i rapinatori e gli aguzzini le fecero irruzione in casa. La pronuncia per indicare il subbuglio della sua anima, che da quel giorno non si è mai più chetata. 

Rosina Fracasso ha 95 anni. Novantacinque portati come se ne avesse venti. Gli orecchini di rame, avvoltolati a forma di spirale che le scendono dall’orecchio, quei ricci ondulati perfetti che le contornano il volto – anche se lei dice di non essersi pettinata – quei lineamenti dolci, nitidi – che bella doveva essere da giovane – e quegli occhi vispi attenti svelti e pronti. Se la si guarda di profilo, il naso disegna un perfetto angolo di quarantacinque gradi che le spunta graziosamente dal viso. Al collo indossa una collana forse d’argento e alle mani due fedi. La sua e quella di suo marito morto. 

Il marito di Rosina, Ennio Libero Bendini è morto il 20 gennaio 2020. Da quella rapina non si è più ripreso. Quella tremenda notte, in tre a volto coperto entrarono nella loro casa, a Piacenza d’Adige in provincia di Padova. Rosina ed Ennio stavano dormendo. Dormivano come ghiri, quando tre sagome apparvero loro in fondo al letto. Fermi. Fissi. Bendati con passamontagna e calzamaglia. Prima presero lui. Poi presero lei. 

“I soldi, i soldi, i soldi”, gridarono. Ma vedendo che non reagivano, presero Ennio, lo portarono di peso dinanzi alle scale, e con una violenza da far rabbrividire lo spinsero giù di sotto. Lo spinsero proprio come facevano i nazisti con gli ebrei. Lo fecero rotolare giù dalle scale, una spinta alla schiena e lui ruzzolò giù. Poi lo presero per il bavero del pigiama e lo trascinarono in una stanza. Quell’altro prese Rosina. Lei era in reggiseno e in mutande, disse: “Ti prego fammi mettere i pantaloni”, ma questo non ci sentiva. 

Rosina all’epoca aveva 86 anni. Ennio 87. La strattonò e trascinò di sotto anche lei. Gli aguzzini tranciarono i fili del telefono così da interrompere le comunicazioni, in un casolare che a vederlo sembra veramente in un angolo di mondo perso, e con quei fili tranciati costruirono le loro manette, le loro prigioni. Li legarono. Li imbavagliarono, li picchiarono a sangue. Mentre Rosina urlava, a Ennio fecero dei tagli in testa. Il sangue scorreva a fiumi per la stanza. Poi vedendo che non trovavano i gioielli, presero il ferro da stiro, lo attaccarono alla corrente, lo scaldarono e una volta “pronto”, lo stamparono sul braccio di Rosina bruciandola dappertutto. 

Agirono come vere e proprie bestie. Poi conficcarono il coltello sulla coscia di lei, finché le gridavano “Puttana”. Quando se ne andarono, Rosina con quelle poche forze che aveva in corpo, riuscì con un vecchio cellulare a metterlo in carica, comporre il numero del 112, e chiedere aiuto. Un aiuto disperato perché per salvarla le fecero tre trasfusioni. Era questione di ore. Da quel giorno Rosina ed Ennio non si sono mai più ripresi. Mai. 

Ennio è morto di crepacuore cinque anni fa. Rosina vive la vita come se niente dopo fosse accaduto. Come se tutto si fosse fermato a quella notte. Sabato sono andata a trovare Rosina e quando sono entrata nella casa mi sono sentita morire. E ringrazio il tatto degli operatori Massimo Belluzzo Roberto Fanzini Marta Lorenzi @nicola marcato e @giselle chan . 

Un’aria di sofferenza angoscia paura vecchiume anticaglia regnava attorno. Anche se a guardarla lei è contenta così. Vive lì con le sue oche, le sue galline, i suoi interessi e le sue passioni, e sorride pure. Quando siamo arrivati il tavolo della sua cucina era cosparso di roba. Ognuna con il suo preciso ordine, di chi scandisce la vita in base alle proprie abitudini. Piatti, bicchieri, telefonini, cercapersone, primule, vasi, confezioni di nescafè e biscotti. C’era anche un secchio giallo, e quei due vasi pieni di bucce d’arancia. “Venite, entrate”, ci ha detto. “Sto facendo gli arancini. Ieri ne ho fatti nove litri. E anche il limoncello”. Al mattino invece beve l’uovo appena fatto. Ma lei è stata un vulcano, un fluire fluviale di parole. Ci ha raccontato di quella notte. Ci ha raccontato che da quel giorno dorme col forcone. Ci ha raccontato che ogni giorno ci pensa. Che è impossibile dimenticare e che la notte le si riga il volto da quanto piange. 

Dei tre aguzzini, pensate, uno non è mai stato preso. E due sono stati condannati a poco più di sette anni di carcere. Sette anni per aver torturato e seviziato due anziani. Poi a un certo punto le ho chiesto: “Le va di portarci nella stanza dove è accaduto tutto”. E lei mi ha risposto: “Io non ci sono più andata di sopra. È rimasto ancora tutto così, come era quella notte. Mi fa schifo passare dove sono passati loro”. 

Quando siamo andati al piano di sopra, quella porta si è aperta facendo un rumore sordo, tonfo. E quella tenda rossa riecheggiava antichi eterni orribili ricordi. Il piano superiore era rimasto davvero così come quella notte. Sopra le cimici avevano preso il possesso dei locali, un tappeto di cimici morte in bagno. Quelle vive invece se ne stavano appiccicate alle tende vecchie e logore. Un’aria lugubre, funesta, funebre. Vedevo che lei tremava e a me a tratti mancava l’aria. I cassetti erano ancora ribaltati a terra. Gli armadi erano ancora aperti. Le porte erano ancora scheggiate. Sbattute. Il copriletto dove dormiva con suo marito sempre quello. Quando ho visto quel casino a terra, “la rivoluzione” come la chiama lei, mi si sono inumiditi gli occhi. Lei si è guardata la mano. “Sto tremando”, mi ha detto. 

Il mio servizio andato in onda mercoledì sera a Fuori dal coro 

Montaggio di Luca Rubbo

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