Trentanove.
Trentanove infinite rotture di coglioni. Trentanove infinite grandi soddisfazioni.
Trentanove anni di partenze, arrivi, lacrime, ritorni, attimi, sensazioni, giovani emozioni.
Ieri era il mio compleanno. Ed era anche il giorno della libertà di stampa.
Era il mio compleanno ed è anche l’anno in cui “festeggio” 10 anni di giornalismo.
“Bisogna sempre festeggiare”, mi ha detto un collega, ma prima di tutto un amico.
Quando vedi la porta girevole della scuola guida passarti appresso perché ti scade la patente, capisci che sì, “bisogna sempre festeggiare”.
Questi dieci anni sono stati di partenze, arrivi, andate, ritorni.
Anni di immense infinite rotture di coglioni. Quelle dove ti scontri con le pecore, con le capre, con i caproni, con gli imbecilli.
Ma anche anni di grandi soddisfazioni. Di nuovi amici. Di professionisti.
Anni di cronaca, incidenti, morti, morti ammazzati. Anni di teli bianchi sull’asfalto. Alluvioni. Terremoti.
Il mestiere del giornalista è un mestiere di gamba. Nasce e cresce sulla strada. Si ciba delle storie degli altri. Le fa proprie quelle storie. Non ci dorme la notte. La sofferenza, la solitudine, il dolore, sono cose che non puoi cancellare. Ci entri dentro quelle storie, le racconti. Ti dimentichi di esistere. Ricordi solo di essere.
Anni di treni, aerei, tabelloni di orari, treni persi, presi al volo, con la borsa che ti si chiude tra le porte. Anni di corse. Di lotte contro il tempo. Anni di “Sere manda questo cazzo di pezzo!”.
Anni di errori. Di sbagli. Di “prova disfa e rifai”.
Anni di telefonate sospese. Di mail da inviare. Di tentennamenti vari.
Anni di lotte, pugni, calci.
Di porte prese in faccia. Di chiamate non risposte. Di mail a vuoto. Anni di gavette. Di presunzioni. Di ipocrisie. Ma anche anni di festeggiamenti. Di indagini. Inchieste. Reportage. Anni passati a provare e riprovare ancora. Con la paura di fallire. Con la paura di non essere all’altezza. Con la paura che ti prende la sera prima di partire e vorresti lasciare.
Ma non lo farai mai.
Anni di discussioni. Di parole, di volti, di sguardi, di incontri, di scontri, di incroci e di relazioni. Il Kosovo. La Serbia. La Bosnia. La rotta Balcanica. Le inchieste sull’immigrazione.
Ma anche dieci anni in cui ho visto mettermi il bastone tra le ruote. Gente che non sa comporre manco un telegramma e pretende di insegnarti il mestiere, non capendo che senza sensibilità non si va da nessuna parte. Senza anima non raggiungi le corde degli altri. Non le tocchi. Non le senti vibrare. Non senti la musica. Quella delle parole. Che sono come le persone. Le devi trattare con cura. Averne rispetto. Prestare tempo, ascolto, fiducia. Ti devi sentire totalmente immerso.
Il nostro non è un vestito che alle sette di sera togli.
È un mestiere esistenziale che ti porti appresso. Quello che quando scende la sera lo senti sugli occhi.
Dieci anni in cui qualcuno ha anche provato a zittirmi. Prima il “licenziamento”. Poi la sospensione. Tutte cose che ho affrontato a testa alta, battendomi per ciò in cui credo veramente: il mio lavoro. Il nostro lavoro. Il nostro mestiere. Che non si compra. Non si baratta. Non si mette in vendita. Se non ci metti il pensiero, se non scrivi con il cuore, se non ci metti del tuo, sei solo un passacarte.
Ma nonostante questo anni di grandi gioie. Di piccoli passi giorno dopo giorno. Anni in cui prendi vai parti. “Serenella dove vai?”. “Mamma è il mio lavoro, devo andare”.
E adesso, adesso si riparte.
Così, oggi ho scritto a un collega. E lui mi ha risposto. “Staremo a vedere”.
Sì, “ma con gli occhiali da sole in faccia per non farvi vedere cosa portiamo giù in fondo agli occhi”, staremo a vedere.
sbetti
