C’era sempre andata bene. Avevamo tutto.
Solo che poi qualcosa si è messo di traverso. Come quel fulmine che arriva a ciel sereno.
E da lì è stato il collasso. Il covid. La pandemia. La crisi. La disperazione. Le storie delle persone. La cronaca della gente. Dei poveracci. Degli assetati. Di chi non c’ha i soldi. Di chi ha perso il lavoro. Di chi apre. Di chi chiude.
La cronaca dei medici che salvano le vite degli altri. Dei giornalisti che le raccontano. Dei padri che soffrono. Degli imprenditori che si ammazzano. Delle madri che piangono. La paura della malattia. Lo scontro con la morte. Il nostro non essere invincibili. Ma vulnerabili. Soffi.
E ora. Questo. La guerra in Europa. Non che le altre guerre non siano importanti. Anzi. Ma è che è normale. È così. La sentiamo accanto a noi. Ce la sentiamo addosso. La percepiamo nell’aria. Negli sguardi. Tutti si chiedono in fondo in fondo: “E se arrivasse anche qui?”. Di fatto c’è già arrivata. Non abbiamo le bombe. Non abbiamo i morti e i feriti per strada ma questa guerra è arrivata anche qui e lascerà strascichi per tantissimo tempo.
Eravamo distratti noi. Presi da tutto. E niente. Abbarbicati su cose a cui dovevamo per forza trovare un senso. Ci gongolavamo sulle gonne a scuola. I trans. I gay. Il Green Pass. Baloccavamo su ora solare e legale, su cessi inclusivi, e insetti fritti. E adesso i venti di guerra soffiano da ogni dove. Questa cosa dell’esodo poi è micidiale. Infernale. Devastante. I popoli che tracciano le strade. Che varcano confini. Che solcano le onde.
Secondo quanto riferisce l’Onu, i primi 10 giorni di guerra, erano già più di 1 milione e mezzo i rifugiati fuggiti dall’Ucraina. Oggi sono oltre due milioni.
È “la crisi di profughi più veloce in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale”, ha detto l’Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, Filippo Grandi.
Questa orda ciclopica che trascina e porta con sé morti corpi cadaveri mutilati, che travolge anziani donne bambini, che arruola uomini mandandoli al fronte, che spezza famiglie, le taglia come la lama che affonda nel dolce, tu da una parte. Tu dall’altra. Li separa. Come era una volta. I cancelli dei campi dei rifugiati si aprono a ciclo continuo. Quattordici ore al giorno. È un continuo arrivare di profughi di disperati di gente che ha perso tutto e non sa dove andare. Come in un nastro trasportatore passano come bagagli e via uno e avanti un altro. E via un altro. E avanti un altro ancora. I treni vengono presi d’assalto ai binari dove i dannati stanno in fila aspettando il loro turno.
È la storia che si riprende il suo tempo. L’orologio che non ha mai smesso di correre. È la Storia che si riscrive. Che rimescola le carte, che torna terribilmente indietro, andando avanti.

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