
Qualche anno fa ancora prima del covid, ho raccolto le testimonianze delle donne vittime delle foibe. Sono andata nelle loro case. Le ho intervistate. Ho bevuto un buon caffè da loro offerto. E insieme abbiamo fumato una sigaretta.
Le ho ascoltate, le ho intervistate, le ho accompagnate mentre tiravano fuori dai loro armadi pieni di naftalina scatolini ingialliti e imbruttiti di vecchi ricordi. Una viveva col marito ancora in un residence e aveva gli occhi sbarrati. Pieni di pianto. In lei c’era ancora l’orrore. Ricorda ancora i libri che il padre le aveva comperato per farla leggere.
Un’altra invece stava in una casa e aveva come compagna una grandissima bambola di porcellana. Metteva inquietudine. Ricorda ancora quei giorni di quando dovette scappare, di quando la rinchiusero perché scattava le foto con quella macchinetta che ancora teneva tra le mani e di quando la sua amichetta venne stuprata e infoibata.
E poi Graziella Gianolla. Che quando l’ho conosciuta c’avea 85 anni. È morta durante la pandemia. Quando sono arrivata a casa sua quel giorno di febbraio 2018, ho suonato il campanello. Sono salita. Mi ha aperto la porta con la sigaretta in bocca. Tiro sempre un sospiro di sollievo quando in qualche casa mi offrono del caffè e posso fumare. Sennò continuo a pensare al caffè e alla sigaretta, divento nervosa e perdo il filo del discorso. Ma anche se qui non avessi fumato, il filo non l’avrei perso.
Lei venne rapita da bambina dai partigiani titini e slavizzata. Era il 30 gennaio 1944 quando i comunisti arrivarono a casa sua. Presero il padre lo zio e il cugino. Il padre le disse: “Torno subito”. Udì un colpo di pistola. E poi più niente. Il padre non lo rivide più. A ottobre dello stesso anno i partigiani andarono a prendersi lei e la madre. La madre la scaraventarono addosso a un cespuglio. Lei la rapirono. La resero schiava. La condussero tra i boschi. Non poteva parlare italiano. La slavizzarono. Rimase dieci mesi per mano dei suoi aguzzini. Dieci mesi in cui fu costretta ad assistere al sesso tra partigiani. Una notte i titini entrarono nelle case di queste persone, sventrandole, martoriandole, razziandole, e portandosi via tutto, anche quello che non avevano. Una sera i partigiani fecero irruzione portandosi via padri, madri, scaraventandoli a terra, colpendoli con pugni calci, uccidendo i parenti.
Il vestito che aveva fatto la madre di Graziella si riempì di pidocchi. Blatte. Chi la liberò, le diede una pistola con tre colpi in canna. Era piccola. Ma ricorda tutto. Orfana venne messa in un campo profughi. E da lì passetto dopo passetto ricominciò a vivere questa vita.
Graziella a 19 anni ha iniziato a raccontare quest’orrore. Prima non poteva parlare. Aveva paura. Era terrorizzata. Era vietato parlare di foibe. Per il fatto di non poterne parlare è stata male. Ma la fede. La preghiera. Il credere in Dio come la madre le aveva insegnato, l’hanno aiutata.
Mentre mi raccontava la sua storia fumavamo. Fumavamo. E fumavamo.
Dio, Nonno, quanto abbiamo fumato, e come mi è familiare l’odore del tabacco in casa. Poi a un certo punto ho stretto quella tazzina di caffè. L’ho lasciata lì. E mentre lei mi parlava per un attimo mi sono guardata attorno. Ho visto foto. Quadri. Dipinti. Giornali. Accendini. Sigarette. Mi sono chiesta come una donna avesse potuto tenere dentro, per tutti quegli anni, quell’orrore che ancora oggi porta con sé. Mi ha detto che non se ne va. Che ogni anno è sempre peggio. Che la gente non può capire quello che hai dentro. Quando hai un macigno del genere te lo porti appresso sempre. Ho provato a capire. Ma è impossibile. E per rispetto mi sono fermata. Quando ho alzato lo sguardo verso di lei ho visto questa donna forte. Negli occhi la forza di chi non ha più paura di raccontare.
Serenella Bettin