14 marzo 2.28

L’altro giorno ho intervistato un tecnico di radiologia dell’ospedale di Cremona che ha contratto il virus. L’hanno dimesso martedì scorso.
Lui è Carlo Giussani. E adesso vi racconto.
Insomma mi ha detto che ha iniziato ad avere i soliti sintomi influenzali. Tosse, febbre, ma niente di che. Poi. Poi la situazione si è aggravata, la febbre è salita e Carlo ha iniziato ad avere difficoltà respiratorie.
Così va in ospedale, nel giro di tre giorni si sente sempre peggio, gli fanno la respirazione artificiale e gli mettono uno strumento che gli induce una certa quantità di ossigeno.
Una procedura questa che arriva prima dell’intubazione.
Un lavoro difficile quello di Carlo che lo porta a essere sempre esposto. A contatto con le persone.
“Nel nostro reparto – mi racconta – afferiscono persone dall’esterno costantemente. Medici, colleghi, infermieri. Uno dei lavori più esposti”.
Allora provano a capire da dove può essere partito il virus lì dentro. Ma dare un’ origine alla cosa sembra veramente impossibile.
Mi racconta un po’ del suo lavoro. Di come sia facile contagiarsi. Di come vedi così tante persone che tenerle a mente tutte poi è impossibile. Quando.
Quando mi dice che quando è entrato in ospedale con lui c’era un nonnetto. Un anziano. Avrà avuto all’incirca 80 anni. E che è durato un giorno. Un giorno. Un giorno per fare le ultime cose. Un giorno per salutare i nipoti. Un giorno per salutare i figli. Un giorno per dire qualcosa che non si è mai detto.
Un giorno. Ma non un giorno in cui i figli e i nipoti li puoi vedere. Li puoi toccare. Li puoi baciare. No.
Un giorno per salutarli sullo smartphone. Per vederli in diretta. Per fare una videochiamata.
“È stata la cosa più brutta – mi racconta – sono entrato che avevo un signore accanto a me, una persona che è durata un giorno e poi è morta. Quello è stato un colpo, nell’arco di una giornata se n’è andato, e questo è un ulteriore passaggio drammatico della situazione. È banale dire che si muore soli, ma il fatto di non aver alcun tipo di contatto parentale nel momento in cui stai peggio in assoluto, non senti nessun appiglio, nessun calore, nessuno che ti tira su da un baratro”.
Già. Quel baratro dove finiscono i morti. Quel baratro da dove si sentono le grida dei condannati a morte. Le urla di chi non ne vuole sapere. Gli spasimi di chi sa di non avere più tempo. I respiri di chi sta per andare. Le anime si aggrappano, vogliono leggere un ultimo messaggio. Un’ultima videochiamata prima di abbandonare la vita terrena. Muoiono da soli. In isolamento. Non li puoi vedere. Non li puoi toccare. Non li puoi nemmeno salutare.
“Muoiono così – scrive una collega di Claudio su Facebook – da soli… abbandonati, lontani dai propri cari. I parenti non possono entrare.
Muoiono soli e poi vengono messi in un sacco e non li puoi più vedere. Neanche da addormentati. Non so voi ma questa cosa a me mette un’angoscia terribile. Genitori, nonni che per la loro famiglia hanno dato tutto, MUOIONO DA SOLI! Neanche il vostro cane lo lasciate morire da solo perché lo accompagnate sul ponte”.
“Se questa cosa non viene capita – mi dice Claudio – è veramente drammatico. Ognuno si renda responsabile dei propri gesti che possono portare a queste conseguenze. Non bisogna aver un parente così per capirlo”.
Poi. Poi la collega continua. “State a casa… non diffondete il contagio. Non fateli morire da soli nel letto di un ospedale circondati da amuchina e mascherine. Vi prego… nessuno merita di morire cosi. SIATE RESPONSABILI !!!”.
Già perché poi ogni sera alle 18 arriva la conta dei morti. E non la puoi fermare. Ogni giorno speri che siano “pochi”, che non siano tanti, che non ci siano numeri enormi. Invece. Invece più 160. Invece più 180. Invece più 168. I morti diventano numeri.
I numeri diventano bare.
Bare isolate perfino dentro le chiese.
State a casa.
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📸 LaPresse


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