Ci sono due cose di cui mi sono occupata facendo questo lavoro e che mi sono rimaste impresse nel 2015. La prima è un triste caso di cronaca nera. Omicidio – suicidio. La seconda è cronaca bianca, anzi rosa, se non fosse per il tipo di tematiche che ci vengono in mente con questo colore.
Detto ciò, il 2015 lo voglio ricordare come l’anno di Martina. È la sera del 25 giugno. Io sono a casa e stranamente avevo appena finito il mio lavoro quotidiano: mail, pezzi, ultimi appunti da riguardare. Ma quel periodo era trascinante. Stavo addirittura rivalutando il mio mestiere. Quasi non ne volessi più sapere. All’improvviso mi chiamano. E mi dicono che c’è un neonato abbandonato davanti la canonica del parroco di Santa Maria di Sala. Spalanco gli occhi e chiedo se per caso mi stessero prendendo in giro. Ma no. La fonte è ufficiale. Tutto vero. Così balzo in piedi dalla sedia, mi infilo velocemente i jeans, borsa a tracolla e al galoppo, si ricomincia. Questo lavoro è così. Quando ti chiamano devi correre, alla velocità della luce. Così vado sul posto del ritrovamento e da lì comincia un’escalation di emozioni. Una breve e intensa dose di felicità.
Da quel giorno partono dieci giornate piene di energia, di vita e di speranza. Un batuffolo abbandonato davanti la casa di un parroco, avvolto in una soffice copertina rosa, che vive, piange e si dispera è qualcosa di sorprendente. Non capita tutti i giorni.
Dietro quel batuffoletto dagli occhi verdi e con la carnagione chiara, c’è chi ha visto una madre snaturata. Chi ha visto lo spettro dell’abbandono. Ma in realtà non lo è.
È un dono.
È il volere che quella creatura continui a vivere.
Un’esperienza così, per quanto non in prima persona, ti cambia, ti muove qualcosa dentro che è difficile spiegare. Così mi sono detta: cazzo Sere, ancora si può scrivere qualcosa di bello. Di sincero, di vero.
Scatti, foto, dichiarazioni, flash, articoli di giornale, interviste senza fine, registratori pieni, dietro a una creatura che per la maggior parte del tempo continuava beata a dormire.
Pensi che il tuo compito sia quello di rendere bella una storia sofferta. Perché sicuramente dietro a un batuffolo di cotone abbandonato in una borsa della spesa, chi l’ha messa al mondo per forza deve aver sofferto.
Mai però un gesto più altruista poteva essere compiuto. Chi le ha dato la vita, gliel’ha donata e dandola in dono ad altri ha fatto in modo che qualcun altro si prendesse cura di lei. Senza ritorno, senza aver nulla in cambio.
Tremendo no? Staccarsi da qualcosa che consideri “tuo” e affidarlo, consegnarlo ad altri. Non sapendo nemmeno come sarebbe andata a finire. Io qui ci vedo la vita, la bontà. La massima espressione della libertà. Lasci che tuo figlio spicchi il volo perché tu non puoi farlo volare. Pazzesco. Strabiliante.
Ora la bimba non si sa dove sia. Magari in questo momento sta piangendo, magari sta ridendo. O forse sta mangiando, sta dormendo. Magari ha già detto la prima parolina, in una lingua che non sappiamo nemmeno se sia sua. Le stesse cose che avrebbe fatto con la madre naturale ma che forse non era in grado di darle una serenità.
E allora sappia quella madre che abbandonandola l’ha messa al mondo due volte. E questo basta. A Santa Maria di Sala quel giorno ha vinto la vita. Ha vinto Martina. Che sia di auspicio, per quest’anno, a chi la vita vuole davvero donarla.
Un buon ultimo dell’ anno
Sbett
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