È tutto sbagliato. L’altro giorno mi è accaduta una cosa che mi ha scombussolata parecchio.
Ero in troupe per un servizio e cerchiamo una trattoria per mangiare. Entriamo in una, pieno. Entriamo nella seconda, pieno lo stesso.
Entriamo nella terza, pieno uguale. Entriamo nella quarta e, dopo tante perenigrazioni, incredibilmente c’è posto per 4 persone.
Ci accomodiamo. Ordiniamo. I videomaker prendono dei panini. Io prendo un’insalatona e mi arriva un bel piattone pieno di rucola mais pomodoro ceci insalata verde carote rape rosse. Una roba da far venire l’acquolina in bocca, dato che nel frattempo mi era pure andata via la fame e mi si era chiuso lo stomaco. Non riesco a finirla e la lascio nel piatto. Di solito porto sempre via quello che non finisco perché odio chi spreca e se ne frega. E mi rattristano ancora di più quelli che “non porto via la roba sennò la gente chissà cosa pensa”. Ma a un certo, come piovuto da un altro mondo, nella trattoria entra un uomo.
Ha il volto consumato dalle pieghe dell’inverno. Un cappellino in testa. Un cappotto. E i capelli ricci che gli decoravano il volto. Di primo acchito pareva un ballerino. Il fisico asciutto. Il portamento elegante. E quella carnagione olivastra di chi viene dai paesi del Sud del mondo. Si avvicina, ci saluta e un mio collega mi fa: “Lo vedi quello? Quello dorme in auto”. Mi raccontano che è il figlio adottivo di un tizio. Che questo tizio poi è morto e che in eredità gli ha lasciato la casa, ma lui se l’è trovata occ*pata (scusate se metto asterischi ma alcune parole non si possono più scrivere).
Entra nella trattoria perché ha fame. Ma non ha un centesimo in tasca. I titolari lo sanno. Lo sanno che quell’omino consumato dal freddo dell’inverno non può permettersi da mangiare. Che non può comprare niente. Ma nonostante questo gli apparecchiano un posto dietro di noi.
Arriva il cameriere, mi chiede: “Basta così l’insalata?”. Io gli dico: “Sì”. Ma, non so perché, in quel momento non mi viene di dire “me la porto via”, come faccio sempre. Il cameriere prende il mio piatto e lo passa a lui.
Glielo mette sopra al tavolo. Lui mi guarda. Io lo guardo. E lui inizia a mangiare.
Mi sono sentita morire. Per un attimo ho pensato che quello che io avevo scartato ora lo stava mangiando lui. Che noi abbiamo la possibilità di scegliere. Cosa scartare, cosa tenere, cosa comprare, cosa buttare. È una roba che in qualche modo ti scava dentro. Perché quell’insalata rappresenta la nostra scala sociale. Io mangio il sopra, tu il sotto. Io ho i soldi per potermi permettere un piatto di pasta. Tu no. Quando stasera mi sono fermata all’ultimo al supermercato per comprare due tre cose, rimaste in fondo a un post di una lista della spesa ormai sgualcito, ho visto gente che caricava auto, che comprava a destra e a manca, uomini e donne che litigavano sul tipo di pandoro da prendere, donne che discutevano sul fatto che “se fai il panettone a tua madre, non possiamo fare ai miei il pandoro”. Ho visto tanto spreco, tanta abbondanza, che mi è venuto il voltastomaco. Tre quarti di quella roba andrà sprecata, buttata, ci sarà sempre qualcuno che si lamenterà perché aveva preso il panettone senza canditi e si è trovato i canditi sopra. Ci sarà sempre qualcuno che si lamenterà perché ha preso il torrone con il cioccolato, ma il torrone era duro. Ci sarà sempre qualcuno che si lamenterà perché la pasta era troppo scotta. O troppo fredda. Sempre qualcuno che farà troppo perché se hai parenti in casa non pupi fare brutta figura. Quell’omino con il volto consumato e con il fisico da ballerino mi ha fatto venire in mente il cibo, entrato così prepotentemente nelle nostre case, così divisivo al punto tale da creare differenze sulla scala sociale. Dopo tutto quello che abbiamo sentito, vissuto questi mesi, dopo quello che ancora accade, penso a chi non può nemmeno permettersi un piatto di insalata, penso alle bombe, alla guerra, a chi per Natale come commensale avrà un vaso di frutta, e mi sento ipocrita augurarvi buon Natale.

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