
Cogollo del Cengio ha un’altra velocità. Se ne sta su ai piedi della montagna lungo la strada che porta ad Asiago, che quando sali, se è sabato e domenica, vedi nuvole di ciclisti scendere col rumore del vento e dei raggi della bici, alla velocità della luce. Se li vedi salire invece, vedi questi volti smunti, scarnificati, sgualciti, emaciati, su per la salita, inerpicandosi per la montagna, che ti chiedi come facciano. Gliela vedi sul corpo la fatica. Disegna solchi di magrezza consunta che svuota le braccia, le gambe, i polpacci, la pancia. La pelle rientra dentro, le vene spingono in fuori. E ci vedi solo il muscolo. Se ti fermi a mangiare in un qualche posto poi ci vedi frotte intere di motociclisti che si fermano per un ristoro. Qui se sali un attimo sei subito in montagna. Cominciano i tornanti e ti vedi questi enormi monti stagliarsi sullo sfondo che paiono tanti giganti. Paiono quasi risucchiarti. Inghiottirti. Ti trascinano in un vortice d’aria pura e autentica. Le nuvole disegnano spazi definiti sul cielo, paiono volti, alberi, onde, se ti fermi a guardarle ci vedi i simboli del mondo.
Al bar del paese, poco prima di salire, la barista non sa cosa sia il caffè americano. Mi guarda con un’aria esterrefatta, sorpresa, quasi meravigliata. Così le dico che basta che mi faccia un caffè in tazza grande e poi ci penso io ad aggiungere l’acqua calda a parte. La macchinetta dell’orzo poi, per un mio collega, fatalità oggi non funziona. Ma lei non si scompone di nulla. E prepara i caffè alla velocità di un bradipo. Non sei a Milano qui. Non sei a Roma. Non sei a Padova. Che senti le tazzine e i bicchieri sbattere affannosamente e maleducatamente l’un con l’altro che ti vien voglia di prendere il caffè portandoti il termos da casa. I cucchiaini saltellano da una tazzina all’altra che paiono tanti piccoli scimpanzé mossi da qualcuno che non sa manco se sia sabato o domenica. L’ultima volta eravamo in un bar di Milano. Dentro c’era veramente troppo casino. Siam dovuti uscire perché non riuscivi manco a parlare. Il rumore poi metallico scoppiettante di bicchieri tazze e posate ti rimbalzava in testa che mi veniva voglia di prendere le tazzine e tirarle contro il muro. I camerieri maneggiavano questi cucchiaini e queste tazzine come fossero macchine che confezionano le bottiglie. Nessuno sguardo sul cliente. Testa bassa. E movimenti veloci, lesti, svelti, per servire i clienti il prima possibile. A Milano, a Padova non c’è tempo per parlare. Il rapporto umano viene completamente azzerato. Si riduce al nulla. Diventa solo mercificazione e scambio. Io ordino. Tu esegui. Io bevo. Tu, nel frattempo, servi qualche altro. Io pago. Tu batti cassa. Io esco. Senza manco un arrivederci.
Un quadro, invece, appeso alla parete, in questo bar sperduto nel nulla, si è spiccato, nessuno l’ha risollevato e riattaccato dritto. Cosicché adesso ci sta la tipa raffigurata sul quadro che sta a testa in giù davanti l’entrata da dove passano o clienti. Usciamo dal bar. L’aria è fredda. Ferma. Secca. Pare pulita. Mi fumo una sigaretta che quando cominci a salire ha tutt’altro sapore. È sana. Fresca. Sa di tabacco. Una campanella suona l’inizio delle lezioni. Tre maestre entrano dentro la scuola. Una c’ha il giubbetto di pelle. Una è arrivata con lo zaino da montagna. Chissà cosa c’avrà dentro. I bambini, destinatari di un futuro peggiore che gli stiamo costruendo, aspettano tutti di entrare. I genitori fermi dritti in piedi all’ingresso. Qualche mamma ha già il pile pronto per l’inverno. Qui devono battere i denti. Ma penso che tutto ciò è estremamente bello. Saliamo in auto. Al ritorno devo andare in bagno. Ci fermiamo in un locale. Quando salutiamo il barista prima di andarcene ci strappa un sorriso. Nei suoi occhi intravedo un: “Allora non vi siete dimenticati le buone maniere”. No qui ci si saluta ancora.
sbetti
Scopri di più da Sbetti
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
