Il cameriere davanti a me che mi versa il caffè si chiama Massimo. Ce l’ha scritto sul cartellino appeso al grembiule. Non alza mai lo sguardo. Ha il volto fisso sul bancone del bar. Lui è uno di quelli che fanno uno “sporco lavoro”.
Gli chiedo se ha un dolcificante e lui, senza mai incrociare il mio sguardo, me lo sbatte sopra il piattino. Non so se i suoi occhi siano verdi, azzurri come il mare. Come il cielo di oggi a Roma. Non so se siano neri. Marroni come la sabbia. Grigi come la cenere che cosparge la sua mente. O ha la giornata storta, penso. O deve proprio essere infelice del suo lavoro per non incrociare mai lo sguardo della gente.
Da Roma mi sposto a Ostia Lido per un servizio e vi giuro la corsa in auto è uno slalom all’ autodromo del Mugello. Auto di qua. Di là. Spuntano come le palline dei flipper, quando da piccola mettevi dentro le monetine e le palline apparivano da ogni dove. Il tuo scopo era non far cadere le palle in buca. Qui lo scopo è, oltre a conservarle le palle, riuscire a infilarsi, a imbucarsi, a strusciarsi, senza mai toccarsi con le macchine degli altri. Poi d’improvviso un grido. Una postina sta litigando con un agente della polizia locale. Lei grida come un’oca giuliva. Lui le bercia in faccia. Non capisco che sta accadendo ma mi dicono che è normale. Arrivo a Ostia Lido e mio Dio il mare. Qui l’estate deve ancora andarsene. Tra l’altro io sono in felpa. Stamattina a Roma faceva fresco. Poi a mezzogiorno è esplosa la calura. Gente in maniche corte. In canottiera. Quando attraversiamo, sfrecciando con la troupe il lungomare, c’è gente in spiaggia che fa il bagno. Siamo ottobre. Mi tornano in mente le giornate di agosto, che comunque detesto. Odio l’estate, le sue ineleganti e cangianti mutaforme e le sue forme. La detesto. Ma qui il cielo è azzurro.
Lo conosci no? Il cielo di Roma. Te lo ricordi?
Mica è come quello del Nord. Qui il cielo è limpido. Cristallino. Azzurro cielo. Prima di ripartire riesco a prendere qualcosa al volo di corsa in un posto molto carino pieno di foto di Alberto Sordi. Ci sta un uomo tutto incanutito che viene a prendere le ordinazioni. Quando parla, la mascella inesistente gli va contro dentro, credo lo risucchi quasi. Quasi ho paura a farlo parlare. A ogni parola che emette il suo volto si asciuga e si prosciuga. È magro. Magro. La pelle gli avvolge le ossa. Le ossa gliela tirano. Sembra la pelle di un palloncino che allarghi e stringi con le dita. Poi è la corsa. La troupe corre. Devo tornare indietro. Ed è tardi. Il cameraman riesce a guadagnare asfalto sotto le nostre ruote. Macina minuti. E non si scompone di nulla. Scendo in stazione, corro verso il binario. Il 5, il 6, ultimamente con i treni non si capisce mai un cazz. I binari cambiano ricambiano, i tabelloni di arrivi e partenze sembrano tante slot machine impazzite che caricano i numeri a seconda delle bestemmie. Riesco a prenderlo. Al volo. Salto su, con la borsa incastrata sulla porta. Il treno mi porta a Padova. È sera. Quasi notte. Scendo in stazione.
Attorno a me si apre uno scenario grottesco. Gente che dorme per terra in stazione. Fuori. Mi colpisce una donna giapponese che si è creata un giaciglio fuori all’addiaccio, Padova non è come Roma. A Padova fa decisamente freddo, e lei se l’è fatto sto giaciglio con un cuscino, un cartone e un lenzuolo di flanella. Nascondo le sigarette. Un gruppo di ragazzini si è accorto del mio pacchetto e mi viene incontro. Si avvicina un ragazzino di colore, mi guarda il telefono. In giro c’è gente che barcolla. Qualcuno grida. Qualche altro è fatto. Fatto di droga. Fatto di dolore. Fatto da questa vita che non vede via d’uscita. Scrivo a un amico. “Ma sei ancora in Israele?”. Oggi l’Iran ha attaccato. “Sì mi risponde lui. Stanno attaccando ora”. Mi accendo una sigaretta. Non mi accorgo di averne già una in bocca.

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Lido di Ostia

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