
Smettetela di dire che era un ragazzo normale. Una famiglia normale. Con riti normali. Abitudini normali. Basta. Cos’è la normalità? Avete affossato qualsiasi diversità con questa normalità. Avete reso metà mondo un branco di idioti. Tutti così depressi. Tutti così compressi. Tutti così annoiati. Tutti così omologati. Tutti così normali.
In un mondo che affligge i diversi. E che crea più angosce che speranze.
In questi giorni sto seguendo il caso di Paderno Dugnano, quel paesino della città metropolitana di Milano, dove si è consumata una tragedia agghiacciante che mai diresti.
Ho letto numerosi interventi a riguardo. In qualunque parte ti giri trovi qualcuno che tenta di dire la sua.
Psicologi. Psichiatri che ci vengono in aiuto. Professori. Avvocati. Giudici. Ma anche improvvisati opinionisti che si ergono a fantomatici esperti di depressione e adolescenti.
E poi tanti altri commenti sui social dove ognuno cerca di trovare delle risposte, delle spiegazioni, dottoreggia dinanzi a questo dramma che sprofonda e fa sprofondare negli abissi dell’orrore.
Solo che qui non c’è il colore politico di mezzo quindi la caciara non ha raggiunto vette inedite. Ognuno squaderna la propria tesi. La propria teoria. E i post e i commenti sui giovani, sono sbocciati come sbocciano i pomodori nei campi. I danni dei social network. Le droghe. Le ansie dei ragazzi. Le depressioni. I farmaci. Il perché gli omicidi vengano commessi quasi la metà in famiglia. Ognuno con la propria verità in tasca che a volte mi chiedo come facciano.
Basta un attimo aprire i social per accorgersi che il mondo si è accorto che esistono anche i giovani. Anche i ragazzi. Anche gli adolescenti con le loro ansie. Le loro preoccupazioni. Le loro pressioni. Le loro nebule invisibili. I loro vuoti emotivi. In una società che li ha abbandonati a se stessi.
In un mondo dove tutto deve essere bello splendente performante, dove le aspettative degli altri sono sempre più alte, dove dobbiamo essere tutti pronti a condividere le nostre vite vuote piene di niente, il mondo si è accorto che esistono anche i ragazzi.
Qualcuno ha rilanciato fino allo sfinimento le parole del giovane 17 enne che ha massacrato la propria famiglia. Buttandole lì. Come si getta la pasta avanzata nella ciotola del cane, a fine cena. “Mi sentivo oppresso”, “vivevo un malessere”. Non capendo che dietro a quelle frasi c’è un baratro inspiegabile che nemmeno un medico credo potrà mai chiarire. Spiegarlo significa entra nella mente di colui che ha compiuto questa tragedia immane. Nel suo progetto sanguinario. Perché non è stato un raptus. E sì forse i segnali c’erano, ma coglierli è ancora più complicato che mostrarli.
Le frasi che ha detto agli inquirenti quel ragazzo, sono tipiche di qualche altro giovane che si sente oppresso. Che vive un malessere. Che si sente solo. Ma che per fortuna non arriva a sterminare la famiglia. A volte fanno parte del nostro sentire quotidiano, a cui poniamo rimedio con le nostre passioni, il nostro lavoro, le nostre vite sociali.
Continuando a ripetere quelle parole, scagliandole sul muro e sperando che rimangano lì appiccicate senza avere conseguenze, non fornisce, diciamocelo, un servizio pubblico. I giovani dovrebbero essere presi dalla scuola, dalla famiglia, dalle parrocchie, dalle istituzioni, e accompagnati. Guidati. Comunicando con loro. Invitandoli ad aprirsi. La capacità di comunicare i propri sentimenti – che non sono per forza positivi, possono essere anche negativi – credo sia ancora una delle chiavi con cui si possano combattere tremende solitudini.
Questa tragedia, questa strage che si è consumata in un paese in provincia di Milano, io non riesco manco a scriverla. Mi tremano le gambe al pensiero. Ieri, oggi, tutti commentavano cercando di dare risposte a un inferno che non si può spiegare.
In certi casi io, le risposte, preferisco non averle.
sbetti
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