Mi fa paura la guerra. Mi fa terribilmente paura. Mi fa paura per gli squarci che lascia. Per il vuoto. Per l’annientamento. Per lo stupro. Per l’abbandono. Per l’annichilimento. Per la nullificazione. Per la distruzione totale. Mi faceva paura anche da bambina. Quando guardavo quelle immagini della guerra in Kosovo alla televisione, mentre mangiavo e al di là dell’Adriatico la gente moriva. Mi faceva paura. Ma volevo vederla. Sognavo un giorno di vedere il cielo di Pristina. Allora quando sono stata in Kosovo nel 2017, la guerra sembra sia finita ieri. E invece. Invece è finita venti anni fa. Una terra martoriata, squarciata, divisa, fatta a brandelli, una terra immensa, a forma di conca, che c’ha ancora le case trafitte dalle bombe, con i bambini che cucinano peperoni lungo le strade. Una terra che c’ha ancora le case diroccate, le case con il ventre sventrato, con le porte abbattute, con quegli immensi giardini divenuti cimiteri.
Uno, due, tre. Spuntano come zampilli. Una tomba, due tombe, tre tombe, quattro tombe. Dipende. Dipende dai morti. Dipende dall’evento. Dipende da cosa è accaduto perché la guerra porta soltanto questo. Morti e distruzione. E quando guardavo queste case scheletriche per il fragore delle bombe, mi veniva da piangere.
Un turbine la guerra. Distrugge i padri. Ammazza i figli. Impedisce i vivi. Distrugge il passato. Si porta via il presente. Ammazza il futuro.
Un omicidio premeditato. Intenzionale. Doloso. Colposo. Animale.
Un imbuto di morti e cadaveri che mentre lo vivi forse diventa normale. Le stragi in diretta. La tv che vomita morte nelle nostre tavole. Quando noi mangiamo polpette e ci mettiamo dritti in posa per scattarci le foto. Lì. Lì non hanno i nostri stessi problemi. Lì non hanno da pensare al colore dei capelli. Lì non hanno da scegliere cosa mangiare. Se condire o meno. Se servire su un piatto dorato. O su uno stupido piatto d’argento. Lì non è come qui, che ci prendiamo a botte per un parcheggio. E ci facciamo le feste davanti al mosto.
Allora tra poco partirò per la Bosnia e per la Serbia e quando vai in un posto, quando affronti sempre qualcosa di nuovo, devi studiare. Non si arriva catapultati in una cosa senza sapere dove stai andando. Cosa stai facendo. Così. Così ho preso un libro: “Bosnia: la Torre dei Teschi” di Mimmo Lombezzi, e oggi, durante la pausa pranzo, stavo leggendo alcune pagine.
È il mio ossigeno quando fuori comunque tira il vento.
E le pagine fanno così: “I morti arrivavano a dozzine, a centinaia. Carovane di morti, portati a braccia dai parenti dentro bare coperte solo da un lenzuolo o scaricati da furgoni anonimi e sporchi, come quelli dei macellai. Da questa distesa di fosse, da questa collina interamente coperta di croci e di lapidi, migliaia di vite sono state “versate” nel cielo di Bosnia. A piangerle era gente come noi, pensionati, ragazze in jeans e scarpe da tennis, mamme, vicini di casa, fidanzate, compagni di scuola, compagni d’arme, parenti e amici impazziti dal dolore e ancora increduli. Era carne giovane quella che scendeva nelle fosse bagnate. Ed era questa terribile contiguità, questa carne che diventava terra, prima ancora di aver vissuto, sofferto o amato, il lato più sconvolgente della guerra. Una macchina tritacarne, avviata ogni notte per produrre una certa quantità industriale di morte. Intorno alle fosse non c’era neanche il tempo di piangere. Gli uomini scavavano con le lacrime agli occhi e si fermavano solo un istante quando il loro caro scompariva sotto le ultime zolle, poi si allontanavano per lasciare il posto ad altre vanghe, ad altri funerali. Le donne piangevano in disparte. Per quelli che arrivavano con il furgone invece non c’erano lacrime. Morti anonimo, crepati di freddo, di bombe o di malattia nell’arcipelago dei quartieri isolati. Morti che nessuno reclamava. Ammassi di carne maciullata, tenuti insieme da un semplice lenzuolo. Gli uomini del camion spalancavano gli sportelli posteriori e arretravano coprendosi il volto, investiti dall’odore instancabile dei cadaveri. Afferravano i bordi del lenzuolo e tiravano. I corpi cadevano a terra con rumore orrendo. Guasto. Le teste rimbalzavano senza pietà sul marciapiede. Poi li facevano scivolare uno dopo l’altro sino alla fossa, sino a vuotare il camion”.
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