Voi provate a immaginare se questa infamia fosse accaduta con un governo di sinistra. O provate solo a immaginare se questa mostruosità del nuovo mondo a cui andiamo incontro, fosse stata commessa da giovani immigrati, stranieri, o da quelli di “seconda generazione”, come li chiama chi divide il mondo in scaglioni.
Ecco provate a immaginarlo. Come minimo si sarebbero levati gli scudi, sarebbe sceso l’esercito. Si sarebbe dato fiato alle trombe e invece. Invece parlano i fatti. E sono nudi. Duri, crudi. La cronaca non ammette dissolvenza, intersezioni, solo scagni politici. La cronaca è bruta, vera, reale, te la ritrovi addosso col calore del sangue che ancora cola dal marciapiede. Tutto accade a Milano. In Corso Como. È il 12 ottobre scorso. Uno studente della Bocconi di 22 anni è a pochi passi dalla stazione di Porta Garibaldi, quando incontra un gruppo di cinque ragazzi. I giovani lo fermano. Gli chiedono di cambiare dei soldi. Lui tira fuori 50 euro. E loro lo rapinano. Lui non li conosce. Grida. Si difende. Cerca di inseguirli. Ma i giovani lo deridono. Lo scherniscono. Lo prendono in giro. Poi lo picchiano. Calci e pugni. Pugni e calci. Poi si avvicina il diciottenne. Alessandro Chiani. Ha una giacca e un casco bianchi. E ha un coltello a serramanico. Estrae la lama. E così, come a incidere il fendente in un pupazzo, lo affonda due volte sul ragazzo a terra. Prima sul gluteo. Poi sul fianco sinistro. Il sangue cola sull’asfalto. Il giovane è in fin di vita. Ha un polmone collassato e una lesione spinale, diranno i soccorsi. Le ambulanze arrivano a sirene spiegate. Il giovane deve essere operato. I medici gli fanno diversi trasfusioni quella notte. Ma le ferite sono troppo gravi. Dopo un mese la vittima è fuori pericolo. Ma la diagnosi fa rabbrividire. “Persona offesa rimasto paraplegico all’esito delle lesioni arrecate e con apparati urologico, intestinale e sessuale definitivamente compromessi”, scrivono i giudici nell’ordinanza di custodia cautelare. Dopo la notizia, una certa area politica, troppo impegnata in campagna elettorale, e che mai niente si lascia sfuggire, non largheggia preghiere, non soffia sul fuoco come fa di solito. Sì alcuni post. Ma che vuoi che sia un post se il linguaggio ormai è quello dei ragazzi che fanno selfie. Nessun rosario per questo ragazzo che rimarrà invalido.
Nessuna rappresaglia. E sarà perché i giovani erano italiani, uno straniero, di “buona famiglia”. Il ceto medio. Normo integrati. Uno di quelli che mai diresti. Vengono tutti dalla zona di Monza, dal quartiere Tirante. Due hanno 18 anni, gli altri tre 17. Alessandro Chiani, 18 anni, è colui che avrebbe sferrato le coltellate. È cresciuto in un quartiere residenziale di Monza e fino alle medie frequentava l’oratorio. Ahmed Atia, l’altro maggiorenne, è un ragazzo di periferia. Origini egiziane. Poi ci sono i tre ragazzi di 17 anni. Uno di loro è il figlio di un agente di commercio, l’ altro di un bancario. C’è chi gioca nella società sportiva monzese e chi ha la passione dei videogiochi. Una vita tranquilla, “vivace”, diranno i vicini. Sì un po’ “bulli”, qualche debito a scuola, qualche anno da recuperare, ma cosa vuoi che sia a quell’età quando la vita ti pare infinita. Eppure, dicono i giudici, sarebbero stati pronti a “colpire di nuovo”, totalmente “indifferenti all’altrui sofferenza”. Anzi, dalle telecamere che hanno ricostruito l’accaduto, si sentono i giovani dire: “però non so se si vede il video dove lo scanniamo (…). Magari quel coglione è ancora in coma, domani schiatta (…). Ma speriamo bro’, almeno non parla!! Te non hai capito, io gli stacco tutti i cavi”.
Perché ora è così. È la vita che scrolla via. Osservarsi da fuori, come se l’io diventasse altro, sentirsi come spersonalizzati, sdoppiati. La vita che viene consumata a suon di pixel e pollici che scorrono sopra uno schermo. È un selfie che immortala il nostro tempo sommerso dal vuoto. Un video mandato in loop e macinato avanti e indietro, fino alla lobotomia. È lo scandire del tempo che avviene a suon di visualizzazioni e followers. Tanto lo puoi ripetere. Tanto lo puoi rifare. Tanto lo puoi cancellare. Tanto puoi fare quel cazzo che ti pare con quel coso che muovi in mano come fosse una protesi digitale, e che non ti fa più distinguere il vero dal virtuale. È una cazzo di storia che dura 24 ore. E il giorno dopo è già finita. La vita vera è un’altra cosa.

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