
L’ultima volta che ho scritto di Massimo Zen, è stato per un servizio per l’Espresso dove parlavo delle cure in carcere.
Anzi, meglio, dell’assenza di cure in carcere.
Lui era detenuto al Montorio di Verona, e lì a marzo scorso apparve un cartello, scritto a penna sulla carta di formaggio, dove si comunicava che a far data dal 1 marzo non erano più ammessi “biscotti al cocco, con zucchero, patatine, pentole, sbrisolona, millefoglie, caffè, pasta, sugo, salami interi, barrette di affettato”. Ammessi, c’era scritto “pesce solo congelato, frutta secca solo sgusciata”.
Una roba che mi aveva lasciato parecchio indignata, dato che se non funzionano le cure all’interno del nostro sistema carcerario, ecco, le restrizioni alimentari, bè quelle funzionano benissimo.
Un tema che ho sempre sentito molto vicino quello delle condizioni dei detenuti in carcere.
Ci sono entrata per la prima volta in visita, ancora dodici anni fa. Al Due Palazzi a Padova. Ancora ricordo il tonfo cieco e sordo di quei cancelli che si chiudevano. Di quelle chiavi che scampanellavano e quelle celle così piccole e anguste. Ogni cella diventava un mondo a parte dove ogni persona – in carcere ci sono persone – la riempiva del suo mondo. Mi colpirono molto i libri scompaginati e sfogliati sopra il letto dentro la cella di un detenuto. Ma l’ultimo volta che ci sono stata, era al carcere minorile di Treviso e lì ho visto tanta, troppa, terribile sofferenza.
Le turche usate come docce. E per dormire materassi accatastati e ammassati a terra. Non era un bel posto, non lo era nemmeno con quel dipinto che dipingeva passato e futuro. Il passato col nero e il futuro con l’azzurro. Il presente era quella roba che sta in mezzo, quel tempo sospeso, tra una cella piena ma vuota e un’ora d’aria concessa.
La moglie di Massimo Zen Franca Berto la conosco bene. Intervistai il marito giusto due ore prima che i carabinieri lo prelevassero e lo portassero “dentro”, come si dice in gergo. “Sono pronto, sto aspettando”, mi disse, con due borse di nylon della spesa, perché le valigie in carcere non sono ammesse. Lui venne condannato a nove anni e sei mesi per aver sparato a un bandito che aveva appena assalito un bancomat. La moglie in questi anni di detenzione si è sempre battuta per i diritti dei detenuti.
Il marito, pensate, doveva rifare la protesi dentaria, perché aveva mal di denti, ma, cito testuali parole, “l’intervento non si può fare perché il carcere non ha le strutture adeguate”.
In più, mi disse la moglie, “lì dentro Massimo ha iniziato ad avere problemi al cuore. Ma l’holter per monitorarlo è arrivato dopo tre mesi”.
Quando mi ha detto così, ho iniziato un po’ a indagare sulla sanità nell’ambiente carcerario e ho scoperto un mondo. Cure che non arrivano, esami rinviati per mesi e anche per anni. Al carcere Pagliarelli di Palermo ho raccolto la testimonianza di una persona che doveva essere operata di cataratta, ma a furia di aspettare ha perso l’occhio.
Quel giorno che incontrai la moglie di Massimo Zen, per Fuori dal Coro, erano due anni fa, ed era sotto Natale e ricordo ancora il tremore nelle sue parole, la sua calma, la sua pazienza, il suo equilibrio, e la sua forza che sgorgava anche dalle lacrime che piangeva. Ieri pomeriggio il nome Zen aleggiava nell’aria. Quando ho saputo che Mattarella gli aveva concesso la grazia, le ho subito scritto. Lei era al settimo cielo. Ha lottato anni perché il marito lì dentro avesse una vita più dignitosa.
Perché quando a un uomo togli la libertà non gli puoi togliere anche la dignità.
sbetti
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