
Martedì scorso in provincia di Venezia è annegato un bambino di sei anni.
Stava giocando sul bagnasciuga. È sfuggito al controllo della mamma ed è sparito. La madre ha subito lanciato l’allarme. E la catena umana si è mossa subito.
Carlo Panizzo – questo il suo nome – era lì per il suo compleanno. La mamma glielo aveva fatto come regalo. Tre giorni prima aveva compiuto sei anni e la mamma lo aveva portato al mare.
Le ricerche sono andate avanti fino a notte fonda.
Le persone sono rimaste lì con le torce, passando al setaccio ogni centimetro quadrato di fondale. Sono entrate in acqua. Hanno cercato, ricercato ma del bambino nessuna traccia.
Di notte, alle 2.45, la tragica scoperta. Il corpicino del bambino giaceva lì. Esanime, a cento metri dalla riva, sul fondale sabbioso, a due metri di profondità. Accanto al punto dove la madre lo aveva visto per l’ultima volta.
La notizia è stata subito data dai media online e lì il popolo rozzo del web si è scatenato. Ha dato sfogo alle sue prodezze verbali e non ce n’era più per nessuno. Ho letto dei commenti allucinanti nei confronti di una povera madre che già porta la condanna di aver perso un figlio. Di averlo visto morire, che già porterà sulle spalle quell’enorme anatema perché penserà di non aver impedito che il figlio sparisse.
La gente invece, il popolo della tazza del water che commenta dal cesso di casa, senza minimamente pensare all’altro – una moda sempre più diffusa quella di non provare nemmeno a indossare i panni dell’altro, eppure è gratis – ecco il popolo della tazza del cesso (che non è evidentemente il popolo che presta soccorso in caso di aiuto e che scende in mare con le torce, sarà che i social vi hanno rincoglionito? ); ecco il popolo della tazza del cesso ha iniziato a commentare dando alla mamma della sprovveduta, della superficiale, della ingenua, della sciocca, della impreparata. Come se tutti fossero in grado perfettamente di affrontare le prove che la vita ti mette davanti. E si sa che si affrontano sempre bene quelle degli altri. Quelle le si affrontano benissimo.
Qualcuno, commentando come se fosse presente, ha anche asserito che la mamma non avesse tenuto a bada il figlio – ma si sa che quando accadono queste cose ti trovi ad avere a che fare con gente talmente deficiente che dal divano di casa è in grado di predire il futuro, di vedere scene del passato di cui ha letto due righe su Facebook, ah la gente manco i titoli legge tra poco, e se li legge non li comprende – e ha mostrato indignazione perché diamine! Perbacco! Al mare il bambino va tenuto sott’occhio perché è questione di un attimo. Esatto.
Lo stesso attimo che la gente impiega a sparare puttanate e incommensurabili vaccate è lo stesso attimo in cui ti sfugge il figlio e in un battito di ciglia non lo trovi più.
Ma la gente – ho imparato a mie spese – il popolino del web che defeca col tablet in mano è così. Gente insoddisfatta. Punita dalla vita. Girasagre il cui unico target è riempirsi la pancia la domenica sera e fare le storie su Instagram. Un popolo di censori, recensori, di idioti virtuali, che si permette di sentenziare tutto. Per ogni fatto che accade – fateci attenzione – arriva sempre il buontempone di turno che avrebbe saputo fare meglio – che si sarebbe messo a cercare col fischietto, che si sarebbe tuffato in mare, che avrebbe chiamato la Cia, l’FBI, l’esercito, che non avrebbe permesso al figlio di allontanarsi, di giocare sulla riva, che avrebbe insegnato al figlio come si sta al mondo, perché è risaputo che dalla tazza del cesso commentando su Facebook gli insegnamenti sono alquanto lodevoli.
In internet, se ci fate caso, ogni qualvolta accadono questi fatti, è la sagra del baccalà di turno che la spara più grossa.
Anche nel dolore. Anche nella sofferenza altrui. Anche nella immensa tragedia, non siamo in grado di chiudere la nostra cazzo di bocca e di bacchettarci sulle dita, per provare un attimo a metterci nei panni dell’altro e chiederci: ma se capitasse a me che farei al suo posto?
No. E così ci permettiamo di sentenziare. Di giudicare. Di emettere verdetti. Ci permettiamo perfino di decidere. Ne abbiamo per tutti i gusti. Abbiamo commenti se un genitore lascia in auto un figlio. Se un nonno balla al funerale del nipote – è successo anche questo e la gente sempre lì pronta col bazooka in mano – ci permettiamo di decretare se è giusto o sbagliato, non accettando minimamente un pensiero o un comportamento diverso. Ho seguito vari casi di cronaca e ogni volta – ed è una cosa che spiazza ve lo assicuro – le persone reagiscono in modo diverso.
Ma noi, sempre lì, col nostro misero dito puntato.
Con le nostre sentenze che valgono meno di niente, così giudicanti esaminatori valutatori delle vite degli altri. Pronti a vomitare parole anche dinanzi a una madre che assiste a uno degli eventi più tragici che le possa capitare. Vedere morire la creatura a cui ha dato la vita.
Aveva ragione Umberto Eco. Con i social abbiamo dato parola a legioni di imbecilli.
sbetti
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