È la cronaca, bellezza. Ieri erano 18 anni dalla morte di Chiara Poggi. La ragazza acqua e sapone di Garlasco, ammazzata la mattina del 13 agosto 2007, nella sua villetta di via Pascoli. 

Niente a Garlasco, da quel giorno, è stato come prima. Basta nominarlo Garlasco, la gente indietreggia. Sgrana gli occhi. Addirittura, qui, nessuno vuol sentire parlare del caso. Quasi manco parlare di Garlasco stesso. Garlasco è un’altra dimensione. Un altro paese. Non è tutto quello che credono gli italiani da diciott’anni a questa parte. 

Ci sono stata a Garlasco, son due mesi che faccio su e giù, avanti e indietro, e, scusate la comparazione, sembra di stare a Napoli. Tutti sanno ma nessuno vuole parlare.

Quando mi hanno detto: “Domani vai a Garlasco”, lì per lì mi sono detta: oddio, io? A Garlasco? Come faccio a seguire il caso che non l’ho mai seguito – quando accadde l’omicidio manco facevo questo mestiere – come faccio a entrare in coda a un caso del genere che tiene banco ovunque, che sta monopolizzando i canali, le reti, i social, le storie, le conversazioni tra colleghi, al bar, con gli amici, con i genitori, con tutti. E invece un po’ alla volta impari a entrare in acqua. A farti spazio tra il marasma di informazioni, che da quando è stato riaperto il caso, si accavallano ogni giorno. Anche perché, diciamocelo qua, l’Italia non è che ci stia facendo una grande bella figura. 

L’indiziato numero uno era, all’epoca, Alberto Stasi, il fidanzato di Chiara Poggi – chiamatela Chiara Poggi per favore, non chiamatela Chiara, non era vostra sorella, vostra zia, una vostra amica, una vostra parente. 

Stasi viene condannato definitivamente nel 2015 per omicidio volontario a sedici anni di carcere. Ma quest’anno la procura di Pavia riapre il caso. C’è un nuovo indagato. L’indagato si chiama Andrea Sempio, ed è un amico del fratello della vittima. Da quando la procura ha riaperto il caso, le foto della vittima, del carcerato, del nuovo indagato, i volti nuovi, gli avvocati, i consulenti, i genitori, e gli amici di tutti, perfino i preti, sono entrati prepotentemente nelle nostre case. Ci facciamo colazione insieme mentre leggiamo il giornale. Ci beviamo il caffè al bar. Ci pranziamo. Ci ceniamo davanti alla televisione. Ci dormiamo. Ascoltiamo podcast come se piovesse. Quando non piove camminiamo con le cuffie guardando gli ultimi video usciti su youtube in cerca di un indizio, di un particolare, che possa riscrivere la storia di questo delitto che tiene banco agli italiani da 18 anni a questa parte. 

Ma un giallo, non è mai sempre con il finale scontato, non è detto che sia stato sempre il maggiordomo. E non è detto che se venga uccisa una donna sia stato sempre il marito, il compagno, o l’amante. Chi ama, paga lo scotto della letteratura criminale, come mi ha detto Enrico Silvestri, cronista del Giornale, il primo a scrivere dell’impronta sul muro, e che ho intervistato. 

Anche perché diciamocelo qua, in questa nuova indagine sta uscendo di tutto. Il caso Garlasco non è solo un caso di cronaca. 

Garze contaminate, testimoni mai sentiti, intercettazioni ignorate, prove nascoste, mal valutate, acquisite male. Ogni giorno da due mesi a questa parte scopro qualcosa che mi lascia senza parole. Che mi fa cadere la bocca. Il caso Garlasco ha messo a nudo le fragilità del nostro sistema giudiziario. Quello con cui mai nessuno vorrebbe averci a che fare, quello che ti chiedi: “e se ci fossi io dietro le sbarre da 11 anni da innocente?”, “e se un giorno non c’entrassi niente e mi trovassi incriminato o indagato per qualcosa che non ho fatto?”. Ti vedi la vita rovinata da chi la vita, sostanzialmente, continua a farsela. 

I cittadini non si sentono tutelati, quel principio “al di la di ogni ragionevole dubbio” che dovrebbe essere granitico, ti accorgi che vale solo se il dubbio è figlio di un politico. 

E questo fa paura, una paura fottuta. Da un giorno all’altro ti ritrovi coinvolto in una inchiesta che se non hai un cazzo di scontrino che prova la tua innocenza sei fottuto. Il pensiero poi che ci possa essere un assassino libero, che i carabinieri abbiano fatto cappellate, cit Cassese, beh questo pensiero non ti fa dormire la notte. Ti viene l’angoscia a pensare che ci sia qualcuno a cui potrebbero aver tolto 11 anni di vita sulla base di cappelle. 

Nessuno però era davvero preparato a tutto questo caos mediatico. La gente vuole sapere, freme dalla voglia, vive con quella bramosia di poter risolvere un caso irrisolto da quasi vent’anni. 

La prima volta che sono giunta in un giornale, il caporedattore mi disse qui valgono le due M e una S. Merda, morti e soldi. 

Perché poi l’informazione si scontra con i picchi di vendite, con lo share di ascolti, una roba meglio del romanzo giallo che compri in sconto al supermercato della località di villeggiatura, da leggere sotto il sole. Peccato che qui ci sia la vita vera di mezzo. E tanta, tanta, tanta, credetemi tanta, sofferenza. I casi che si trascinano, le procure che comunicano, le ipotesi investigative che si ribaltano, i nuovi segreti mai scoperti, le nuove rivelazioni, la ridda tra innocentisti e colpevolisti, tutti pronti con la loro ipotesi. E questo fascino del lato oscuro dell’agire umano. Proviamo una sorta di repulsione, di stordimento, ma allo stesso tempo vogliamo sapere. Abbiamo bisogno di sentire, di scavare, di vedere. L’essere umano ha sempre avuto bisogno di certezze. E quando si creano dei vuoti, cerchiamo di riempirli. 

Non lo so come andrà a finire, se ci sarà una svolta. Se è tutta fuffa. Ma le cose che non tornano nella prima indagine sono tante. Indagini fatte ad cazzum. Che, scusatemi, ma c’entrano veramente gran poco con “al di là di ogni ragionevole dubbio”. E qualora anche un solo dubbio ci sia, credo sia bene far di tutto per toglierlo. 

A Chiara Poggi.

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