“Quando stavo a Firenze era evaso un detenuto davanti ai miei occhi, il giorno dopo sono arrivate delle persone dal dipartimento di Roma, sono andato a salutare uno di loro che era vestito in giacca e cravatta, gli ho dato la mano e non mi ha neanche salutato oppure rivolto parola, perché per lui eravamo solo detenuti di uno dei tanti carceri che lui gestiva”.
“Ma signor Direttore – continua – non è colpa sua, ma di chi sta in alto a questa società che non funziona tanto bene”.
La lettera scritta a penna, con carattere corsivo, è un foglio A4 bianco.
Datata 24 luglio 2024, quasi un mese fa, l’ha scritta un ragazzino del carcere minorile di Treviso, indirizzandola al direttore.
Ancora non eravamo partecipi e biechi e codardi spettatori dello show ferragostano del sottosegretario Delmastro che fa visita alle carceri di Taranto ignorando che dentro ci siano i detenuti.
Per Delmastro era importante ribadire – si noti bene – che lui ha fatto visita solo agli agenti di polizia penitenziaria. E pertanto come nelle migliori distopie che delineano i lineamenti di una società spaventosa, inferiore, e più ingiusta, era assolutamente necessario farci sapere che il potere non si inchina ai deboli, ai perdenti, ai vinti, agli oppressi, ai carcerati, a coloro che attendono ancora una condanna o una assoluzione, ma a cui la libertà è già stata tolta. No il potere non si interessa dei poveracci, il potere si inchina alla divisa. “Nella mia delega non c’è il detenuto – ha detto – ma la polizia penitenziaria”.
Così, come andare a far visita in una scuola e parlare con gli insegnanti e non con i ragazzi. Come a recarsi in un ospedale e parlare con i medici e non con gli ammalati.
Come a voler rimarcare l’eterna lotta tra potenti e oppressi, tra vincitori e vinti, tra esultanti e afflitti. Ma del resto questo è lo specchio di questa nuova società.
È la società delle “scialuppe divise per classe”. La società dello sprezzo per chi è più debole. In difetto. Per chi soffre. Uomini e donne senza libertà a cui hanno tolto anche la dignità.
Perché nelle carceri – io ci sono entrata veramente e non come ha fatto Delmastro – si soffre. La sofferenza trasuda dai muri. Li cosparge. E quando esci l’odore del sudore e della disperazione ti rimane addosso per giorni.
È il disprezzo della sofferenza. Il rimarcare il di qua e al di là della linea. È il comune sentire della gente di piazza, fatto di rozzezza volgarità prepotenza e arroganza che un sottosegretario, se avesse coscienza e conoscenza del suo ruolo governativo, dovrebbe estirpare.
Ma questo è un potere che è diventato arrogante. Che se ne frega degli ultimi, dei sofferenti e degli oppressi. E che da voce solo a chi è in grado di difendersi.
I detenuti dentro le carceri, per quanto colpevoli – alcuni non lo sono perché in attesa di giudizio -, vivono in celle sovraffollate, sporche, roventi d’estate e gelide d’inverno. Alcune sono anguste. Strette. Nel carcere dove sono entrata io e non per passerella ma per documentare lo schifo, si fanno la doccia dove defecano.
È molto semplice farsi il giro di Ferragosto visitando un carcere e scattandosi una foto con la sigaretta in un posto in cui è proibito fumare.
Almeno, caro Delmastro, se fosse andato nel cortile dei ragazzini, la sigaretta l’avrebbe fumata all’aperto, e magari gliela avrebbero anche offerta.
sbetti

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