Era l’anno 2003 ed era quello della maturità.
Era l’anno 2003 e l’afa era una roba allucinante. Quell’anno il caldo ti prendeva la gola, non ti faceva respirare, in giro si aggiravano sbarbati sudati e nessuna speranza di ombra. La calura ti sprofondava, ti arrostiva, quasi t’ammazzava.
Era l’anno della maturità ed era quello dei sogni. Quelli belli. Quelli che ancora ti pareva di poter scalare il mondo e rotearci attorno. Io avevo appena finito di fare gli scritti e quella sera andai al concerto di Claudio Baglioni. Stadio Euganeo di Padova. Me lo ricordo ancora. Come fosse ieri. Fu memorabile. Claudio cantava le sue canzoni, le vie dei colori, e le scenografie dipingevano il cielo di azzurro giallo bianco e rosso. “C’era un cavaliere blu, Che catturò la gioventù di primavere, Che portò chimere in schiavitù”, cantava Claudio. Ci sguazzava lui nei suoi colori. Io pensavo ai miei scritti andati, a quella penna blu che intingeva l’inchiostro e lo affondava sulla carta. Disegnava fasci di luce, come quei nastri che usavano le ginnaste al concerto di Claudio.
Fu un concerto e. E poi arrivò l’orale e io fui una delle prime. Uscì la lettera Z credo e quindi andarono dalla Z in giù e poi la A e la B. B. B di Bettin. Agli scritti presi un bel punteggio. Ora non ricordo i numeri esatti. Tanto te ne frega nella vita. Al tema di italiano presi quindici quindicesimi, tanto era perfetto. Ero incappata in un tema che conoscevo bene, quello dei diritti umani, e poi sono sempre stata grafomane. Nel giro di tre ore avevo già scritto tutto. Alla quarta ora consegnai e me ne andai.
Solo che ero discola, ribelle, anarchica, e all’orale tentarono di fregarmi. Ricordo che sedetti davanti la commissione. Ero da sola. Non volli nessuno. So che quel giorno mi vestii anche bene. Mi dissero: “mica ti vorrai presentare all’orale con i tuoi soliti jeans strappati, che uso ancora adesso, con quelle tue solite maglie lunghe fino ai piedi, e con le buffalo come carri armati con le suole?”. No certo che no. Così mi convertii al puritanesimo e inginocchiandomi mi travestii da signorina. Gonna. Camicetta. Parevo un’altra persona.
I primi cinque minuti li passai a illustrare la mia tesina. Ricordo che era in inglese e parlava di Oscar Wilde. Il grande Oscar Wilde. Dovetti tradurre per chi non capiva la lingua. Poi la commissione cominciò a far le domande. Ma alcune erano veramente bastarde. Così mi irrigidii. Cambiai atteggiamento. Mi ammutolii e non risposi. Alcune non le sapevo, altre le sapevo ma la voglia di dispensare il mio sapere era svanita. La consideravo un’umiliazione. Voi mi trattate di merda, pensavo, e io devo star qui a farvi vedere che so qualcosa che manco voi sapete, quando per cinque anni sono sempre uscita con medie eccellenti – tranne l’8 in condotta – e mi son sempre fatta un culo tanto? Così lasciai andare. E quasi come per sfida iniziai a non rispondere. I miei occhi cambiarono espressione. Divennero piccoli e cominciai a osservare i miei interlocutori uno a uno. Li bucai come si bucano i palloncini con gli spilli. Dopo un’ora e mezza mi mandarono fuori. All’orale presi il minimo. E mi giocai un buon voto. Quando andai a vedere i quadri di fine esame, capii che avevano fatto tante magie. Aver studiato cinque anni, non era servito poi a molto, al fine del punteggio. Era servito a me. A crescere e a migliorarmi ogni giorno.
Quelle tre ragazze che a Venezia si son rifiutate di rispondere alle domande dell’orale, perché ritenevano i 3 in greco umilianti (dopo aver preso 8 tutto l’anno) hanno fatto benissimo. Tanto di cappello. Fate loro una statua. Titolate loro un’aula. Non è vero che chi si accontenta gode. Gode chi ha la forza e il coraggio di cambiare le cose.
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