Fermatevi. Sto seguendo quanto emerso dall’interrogatorio di Filippo Turetta e oltre a essere disgustata del contenuto, sono disgustata dal modo in cui alcuni giornali stanno trattando la cosa.
Idem alcuni fantomatici influencer che disegnano e ripostano vignette create ad hoc, riprendendo titoli, lanciandosi come avvoltoi sui cadaveri ancora caldi, esprimendo commenti non richiesti, e dando così vita a un vortice infinito di schifo che soddisfa solo il gusto del macabro della popolazione mondiale che al 70 % è affetta da una mediocrità e da una morbosità che oltrepassano ogni pudore.
Oltre a quelli che si improvvisano giornalisti, dando lezioni di giornalismo non richieste, e che pretendono di insegnarci il mestiere, non capendo che questo mestiere non si insegna ma si impara.
Non si decide. Ma si indossa.
Chi ha dato la notizia ha fatto il suo lavoro, egregiamente. Perché ovviamente facciamo i giornalisti e non i paceri e nemmeno i diplomatici.
Se qualcuno arriva prima degli altri significa che è stato bravo, e chi arriva dopo dovrebbe almeno trattare con cura il lavoro altrui e averne rispetto.
Invece da quel momento sono partiti, come ad effetto domino, una serie di titoli centellinati di ora in ora, negli orari più giusti, più per attirare like che per raccontare una storia dolorosa e angosciante come è stata, come è, e come sempre sarà la storia di GIULIA.
Siti improvvisati di “informazione” che riportano pari pari, con i tanto modaioli “compia e incolla” le notizie date dagli altri.
Ormai non si usa nemmeno più citare la fonte, tanto sono assai diffusi, nel nostro mondo, i ladri di notizie. Furti di proprietà intellettuale resi effettivamente legali.
Professionisti che da ben quattro giorni vanno avanti a pubblicare ogni singolo movimento di Turetta, attendendo il giorno dopo – perché han capito che va bene cavalcare l’onda, meglio è se è bella alta – e cercando ogni titolo a effetto che sia il più attrattivo possibile per un mondo ormai del fast&furios culturale, ridotto allo sfascio.
Un giorno ti sparano la coltellata sull’addome, il giorno dopo aspettano e ti sparano quella sul volto, poi il giorno dopo ancora la coltellata sull’occhio. Il giorno dopo ancora e il giorno dopo del dopo ancora, aggiungono qualche altro particolare di modo da non perdere il passo. Un tocco sensazionale e sensazionalistico che serve solo a soddisfare qualche interesse malato e macabro, diluito nel tempo così da non perdere quota, di chi ha gusto più per l’orrido che per le storie, senza – ripeto – avere rispetto per chi ha dato la notizia e ha fatto quello che doveva fare: informare.
Invece qui si va avanti ogni giorno, ogni giorno, ogni singolo sacrosanto giorno, a pubblicare, a cercare ogni dettaglio da mettere il giorno dopo sul titolo come fosse una soap opera, come fosse una telenovela a puntate, una serie dove si gioca con la vita e la morte di Giulia.
Si gioca con la morte. La si disintegra. La si sbrindella. La si lacera. Più di quanto non abbia già lacerato la vita degli altri. La si riduce a un mero spettacolo ridotto in capitoli. Perché ormai non c’è più informare gli altri. È riprendere le notizie, tirare fuori un dettaglio da qualche altro che ci è arrivato prima, senza pensare a come possano sentirsi quei genitori che ogni volta che si affacciano sul mondo virtuale – ma spero non lo facciano – trovano le facce dei loro figli spiattellate ovunque come corredo delle pagine social dove ogni giorno poggiamo il culo.
Persone a caso che ricondividono parola per parola, senza sapere manco cosa stiano scrivendo, ma mossi soltanto dalla bramosia dell’orgasmo di un momento, dettato da un pugno di like, in preda alla foga del vento.
Non pensano a come stia quella povera madre di Filippo condannata per sempre alla morte senza essere morta. Quel povero padre di Giulia condannato ingiustamente a vivere senza la figlia.
Ma questo vostro continuo instagrammare e facebookare e titolare nella locandina del bar la mattina, non servirà a ridare in vita Giulia, non servirà a incriminare ancora di più colui che l’ha ammazzata. Tutti i titoli e i like non serviranno a nulla. Se non ad alimentare quella malattia che da anni scalfisce la società malata in cui ci troviamo: il gusto del macabro.
C’è chi con quella morte ci deve convivere tutta la vita. Voi scrollate via i post su Instagram e tornate a far la lavatrice del giorno prima. Qualcuno invece no.

sbetti


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