
Poi sei arrivato. E ti sei impadronito di me. Un virus. O chissà qualche altro epiceno virale senza sesso che si è infilato nel mio corpo e ci si è divertito un mondo.
Mai avrei potuto immaginarlo quando d’estate stavo sul balcone delle ferie a fantasticare le prossime storie da raccontare.
Prima, prima facevi un rumore strano. Uno strano bruciore. Me t’è cominciato come un bruciore in mezzo al seno, in mezzo ai due seni. Hai presente lì, lì in mezzo. Lì proprio lì dove punta il seno. Dove ho il tatuaggio.
Non all’altezza del capezzolo. Ma poco più giù sopra l’ombelico.
Sono arrivata a casa dal montaggio quel giorno e ho cominciato a sentire un bruciore lì in mezzo.
Ma non era un bruciore costante. Era un pizzichio. Un fragorio. Un bizz a intervalli. Come una cimice che sta morendo e che ogni tanto emana gli ultimi ronzii di vita, tu già ronzavi dentro di me.
Poi sei arrivato. Ed è stata quella sera.
E lì mi è andato via l’appetito. Lì m’è t’è preso un cappio sul collo che giuro era impossibile da togliere. Ho provato ad appoggiarmi al divano. Alla stufa. Sono uscita fuori a fumare una sigaretta. Ma niente. Il cappio continuava e già non avevo più fame. Così ho preso, mi sono accesa l’ennesima sigaretta. Mi sono fatta una camomilla. E sono andata a letto.
Ma dormire era praticamente impossibile. Tu non andavi né giù. Né su. Te ne stavi lì. Pronto a esplodere. E sei esploso.
La notte hai cominciato a fare il vigliacco. A correre. Correre su e giù per il mio corpo. Prima su. Poi giù. Poi di nuovo su. Poi ancora giù e non mi lasciavi in pace. E più dicevo basta, più mi facevi star male.
Virus intestinale mi hanno detto.
Il giorno dopo. Il giorno dopo ero devastata. Distrutta. Sfibrata. Avevi preso tutto di me. Mi avevi voltata e rivoltata, ridotta come un calzino, che sembravo un tronco senza liquidi e senz’acqua. Hai presente? Hai presente quando prendi un giunco e ci togli la linfa? E questo si irrigidisce tutto e si secca.
Senza manco un ciuffo di muschio verde che cresce sul gomito dove ci sta l’ombra.
Mi avevi scarnificato fino all’osso, col mento rovesciato per terra, con le gambe risucchiate della penultima cellula di acqua presente nel mio corpo. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi. Ad andare in bagno. A parlare. La gente continuava a chiamarmi ma io non avevo nemmeno la forza di alzare il telefono. Le persone con cui dovevo finire di montare un servizio si sono arrangiate da sole. Ho mandato loro dei vocali che non ho ancora il coraggio di riascoltare. La mia voce sembrava quella di una che non parla da anni. Non mi hai fatto mangiare. Per fortuna però mi hai fatto dormire. E così per due giorni. Poi è arrivata la febbre. E da lì è ricominciata la spossatezza. Quando il medico mi ha visitato ha trovato la mia pressione a 50. Avevi scombussolato tutto brutto maledetto. E poi la pressione. La saturazione. E altre cose che ora non sto a qui dirti. Fino a che. Fino a che sabato non sono riuscita a venire in piedi autonomamente. Non c’era più il tuo bruciore sullo stomaco. Il tuo nodo in gola. La tua febbre che saliva. Tu che mi voltavi e rivoltavi. Ma c’eri tu che mi facevi sentire come in mare. In barca. Continui sbandamenti. Oscillamenti. E così è arrivato lunedì. Ora non oscilli più tanto, non sbandi più. Forse solo la paura. Ma so che te ne sei andato. Giù dentro al water. Come tutti i più grandi pezzi di merda.
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