È più grande del Mose italiano. La progettazione vale 750 milioni di dollari. La partita finale si aggira intorno ai 45 miliardi di dollari. E sarà pronto in tre anni. È il Mose americano. Quello che gli statunitensi ci copiano. E per farlo – mica scemi – hanno ingaggiato un ingegnere italiano.

Lui si chiama Massimo Ciarla. Romano, dal 1995 vive a Washington. Ingegnere civile idraulico, laureato alla Sapienza di Roma, appartiene alla quella schiera di cervelli che l’Italia sforna, prepara e forma e poi li fa scappare all’estero. Presidente e amministratore delegato della Tiber International Group Inc e direttore della MC5 Consulting Group Inc che si occupa della difesa delle coste e di opere marittime, Ciarla ha partecipato alla realizzazione del Mose italiano e ora partecipa all’individuazione dei vari progetti che tra sette, otto mesi si aggiudicheranno la partita finale.

L’idea è quella di un colosso di dighe mobili che mira a proteggere Houston, quella grande metropoli in Texas che si estende fino alla baia di Galveston. Qui ci abitano milioni di persone.

Dopo aver passato in rassegna le dighe dei Paesi Bassi, la diga sul Tamigi, quella di San Pietroburgo, l’idea del Mose al governo americano è piaciuta assai.

Soprattutto perché il meccanismo delle barriere è a scomparsa. Non si vede.

Un mostro marino, quello veneziano, con 78 paratie in metallo lunghe fino a 29 metri e collocate sul fondale delle tre bocche di porto: Lido, Malamocco e Chioggia. Le paratoie, incernierate in cassoni e alte come palazzi di quattro piani, sono adagiate sul fondo del canale. Non si vedono e sono piene di acqua di mare. Quando è prevista l’alta marea vengono svuotate dell’acqua e riempite di aria compressa che le fa emergere. A mano a mano che l’acqua esce, le barriere salgono. Una volta emerse dividono il mare dalla laguna, proteggendola dalle maree. Passata la marea, si svuotano dell’aria, si riempiono d’acqua e tornano ad adagiarsi sul fondale. Come una balena, che torna a dormire.

Solo che in Italia, tra scandali e altro, ci hanno messo vent’anni per inaugurare l’opera. Negli Stati Uniti contano per il 2028 di essere pronti. Anche perché non c’è tempo da perdere. “Il mare si è alzato di tre metri e mezzo – spiega Ciarla alla Ragione – il problema qui sono gli uragani. L’Uragano Katrina con oltre 1800 morti, nel 2005, ha segnato un punto di svolta per la consapevolezza dei cambiamenti climatici. Lì il mare si alzò di otto metri e mezzo, un palazzo di tre piani. Il 70% della popolazione mondiale vive lungo le coste, è chiaro che bisogna proteggerle. Il progetto qui è simile a quello veneziano. Il concetto è identico: si tratta di chiudere l’entrata dell’acqua nel golfo ed evitare così che possa entrare nella baia di Houston. In America l’hanno capito. Del resto, immagini una pentola d’acqua portata a ebollizione, quando bolle cosa fa? L’acqua esce. Come il mare. Comunque si calcola di finire i lavori per il 2027. Gli americani sono molto più programmatici, una volta messo giù un programma lo rispettano, in Italia c’è sempre qualche problema. Il Mose appunto, doveva essere finito 20 anni fa”. 

Serenella Bettin 


La Ragione, sabato 11 marzo 2023

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