Sono stata a Novellara in Emilia Romagna a ottobre scorso per seguire il caso di Saman Abbas. E ho capito che con queste persone non ragioni.

Arrivo a Novellara nel primo pomeriggio dopo aver attraversato distese di campi. Qui in questa terra dell’Emilia Romagna tra il Po e la Luna dove gli alberi fanno da guardia agli argini, è stata uccisa Saman Abbas, la ragazza pachistana di 18 anni scomparsa un anno e mezzo fa tra la notte del 30 aprile e quella del 1 maggio.

Novellara è un paese tipico emiliano, li vedi questi archi sospesi, queste piazze immense, queste biblioteche, aule studio che quasi ti vien voglia di tornare all’Università. In giro è pieno di immigrati. Qui come mi dirà il parroco ci sono molte comunità. Quella Sikh. Quella pachistana. Quella marocchina. La pachistana è la più frammentata.

Le incontro queste ragazze con il velo che escono da scuola. E queste bambine ancora senza tenda intorno che non sanno cosa le attenderà da grandi. La città è divisa. Da una parte stanno gli italiani. Alla faccia dell’integrazione. Dall’altra stanno i pachistani. Impossibile amalgamare le due culture. Sono proprio un altro mondo.

Avvicino una ragazza pachistana che indossa il velo. Facciamo due parole. Che poi diventano tre quattro cinque. Un’ora di conversazione. Mi dice che ha sposato suo cugino. Le chiedo se sono innamorati e lei mi guarda con sto fare come a dire: “Ma tu imbecille credi ancora nell’amore? Figlia mia accontentati. Io l’amore non so manco cosa sia”, pare che mi dica. Ma alla fine mi risponde: “Ci trovavamo bene”. Le chiedo quanti anni ha. Lei mi risponde 25. Vorrei prenderla per mano. Dirle “ascoltami vattene ti prego, lascialo, prendi in mano la tua vita, getta il velo e fuggi via”. Ma niente non riesco. Del resto c’avea degli occhi che parevano dirmi: “tu sei contenta, ma io sono felice solo di essere ancora viva”. Sai mai. In Pakistan se non sposi chi vogliono loro prendono e ti ammazzano. Che insulto. Che sfregio. Capisco che non c’è niente da fare. Queste ragazze sono talmente soggiogate che credono che sia normale sposarsi col cugino di vent’anni più grande. Avvicino un gruppo di pachistani e chiedo loro se in Pakistan si usa far così. Un tizio mi risponde che anche in Italia e nelle altre parti del mondo ci sono i femminicidi e gli omicidi quindi lui non capisce dove sia il problema. Rimango pietrificata. Non oso dire nulla. In quel momento gli sputerei in faccia. Ma non posso. Lui mi guarda con aria di sfida. Io volto i tacchi e me ne vado. Ed è proprio questo che non si vuole capire. Che questa ragazza è morta per mano dell’Islam. Una parola che si fa fatica a pronunciare. Infatti, poco dopo intervisto il parroco e gli chiedo con ancora la voce che mi trema per la rabbia e il cuore che stridula per la collera, insomma gli chiedo se per lui sia normale instaurare un dialogo con una cultura che crede che la donna sia inferiore. Lui mi risponde che a Novellara ha imparato cosa vuol dire andare in fila indiana. Ossia il maschio davanti. La donna dietro. Io gli dico che non mi pare sta gran cosa. E lui mi risponde che non è un’imposizione. È un modo di essere. Gli dico che diamine che sta dicendo, è ancora peggio! È naturale allora che sia così. Che la donna sia meno e l’uomo di più e che quindi debba stare dietro. Lui mi dice: “noi non eravamo diversi 50 anni fa”. Tratta la materia con una freddezza che mi spiazza. Ho le mani sudate. Mi siedo. Gli chiedo come sia possibile che un uomo arrivi a preferire l’onore della famiglia all’amore per la figlia. Mi dice: “l’onore è eterno. È sacro”. “Anche l’amore è eterno”, gli faccio eco. “Gli uomini passano”, mi risponde. “L’onore della famiglia si tramanda”.

Ho la schiena che mi trema. Lui anche. Il resto del reportage è un rimpallo tra un ufficio e un altro. Uno scarica barile di fondo. Dove uno non è competente. L’altro non se ne occupa. Quell’altro manco. È la mia entrata con la telecamera nascosta nelle scuole. Ai servizi sociali. Con la gente che ti sbatte in muso il telefono e il citofono e che ti chiude la porta in faccia. È la minaccia dei padroni di casa: “se non andate via chiamo i carabinieri”. Saman era un fantasma. Il dirigente scolastico aveva già denunciato al sindaco del Pd, ai servizi sociali, al comandante della polizia locale, che Saman non frequentava le scuole. Ma nessuno se n’era occupato.

A scuola Saman ci va fino alla terza media. Poi basta. Dal 2017 al 2020, quando Saman denuncia i genitori, che ha fatto sta ragazza? Dov’era? Cosa faceva? Nessuno aveva capito che era in pericolo? Alle mie domande nessuno ha risposto.

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