Sono atterrata a Pristina una sera di fine settembre di qualche anno fa. Era prima. Prima del covid.
Quando atterrai all’aeroporto e sentii due persone parlare in napoletano subito mi ci aggrappai. Scoprii dopo che erano due militari nella stessa base dove alloggiavo.
Un sogno il Kosovo che avevo fin da piccola. Quando guardavo Carmen Lasorella in televisione e quando scoppiò la guerra continuavo a ripetere: “Pristina, Pristina, Pristina”.
Soffrivo tremandamente per via della guerra, mi chiedevo se i bambini come me, quelli al di là del fronte, avessero da mangiare e da bere.
Un fazzoletto, il Kosovo, grande quanto l’Abruzzo. Dove ci convivono sei etnie differenti: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniaci e gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. La bandiera del Kosovo, quel lenzuolo blu, infatti ha sei stelle: ognuna delle quali corrisponde alle sei etnie.
Quando sono arrivata avevo subito capito che fosse una terra particolare. Una tela piena di buchi, di ombre, di simboli e segnali, che rendono difficile e quasi utopica la parola “pace”.
La guerra civile qui non è mai finita. E il fermo immagine che ho nella testa sono quei cimiteri pieni di tombe che spuntano lungo le strade quando ti sposti da una città all’altra.
Qui non ci sono sfumature di grigio. Ogni etnia ha la sua truce e distinta tonalità. In alcune zone la guerra pare sia finita ieri e invece è finita vent’anni fa. Ancora ci sono le case completamente sventrate, bruciate; ci sono zone dove i bambini cucinano i peperoni per strada, o enormi distese di verde cenere dove la furia dell’uomo e delle bombe ha lasciato la terra incolta e arida. Non ci cresce più niente. Nemmeno la gramigna.
Una popolazione che è un caleidoscopio di fiammelle colorate che esplodono tutte. La tensione nell’aria la senti benissimo. La percepisci. La agganci. La fai tua. Ci convivi giorno e notte.
La apprendi quando capisci che per pronunciare Pejë, città del Kosovo occidentale, devi cambiare accento a seconda se hai a che fare con un albanese o con un serbo.
Una regione martoriata, squarciata, fatta a brandelli.
Sono figli della stessa terra e ancora si fanno la guerra. Quando a Sarajevo intervistai un ragazzo bosniaco gli chiesi: Perché tutto questo odio ancora? “Troppo male è stato fatto”, mi rispose.

sbetti

📸 Pristina settembre 2017


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