Roma luglio 2021

Il giorno che l’Italia vinse i Mondiali nel 2006, il giorno dopo avevo dopo l’esame di Diritto Penale. Padova. Facoltà di Giurisprudenza.
Era il 9 luglio. L’esame era il 10. Il dieci luglio.
La sera in cui ci fu la partita io e il mio ragazzo dell’epoca ci trovammo con alcuni amici a casa di un amico a fare festa.
Le lance con le fiaccole anti zanzare illuminavano il viale. E le candele alla calendula disegnavano il cammino verso la tavolata.
Ricordo che una candela, non appena segnò l’Italia, si rovesciò addosso a una persona che ci aveva messo il piede dentro. Se non fosse stato così lesto a dimenarsi ne sarebbe rimasto ustionato.
Quella sera ad attenderci c’era una grande grigliata.
L’Italia batté la Francia con 5 a 3 ai calci di rigore, dopo l’1-1 dei tempi regolamentari e supplementari. I calci di rigore vennero messi a segno da Pirlo, Materazzi, De Rossi e Del Piero. La Francia invece dopo Wiltord, Abidal e Sagnol, cannò con Trezeguet che colpì la traversa.
Fu Grosso a tirare il goal decisivo che consegnò all’Italia il quarto titolo mondiale della sua storia. Per la quarta volta, dopo Italia 1934, Francia 1938 e Spagna 1982 (non ero ancora nata) l’Italia poteva ancora macchiarsi di quel “campione del mondo”, “campione del mondo”, “campione del mondo”, e ancora “campione del mondo”.
Un mio amico che non riuscì a guardare i calci di rigore perché soffriva troppo, come la sottoscritta che però ha voluto guardarli tutti senza mai nemmeno chiudere gli occhi, se ne stava in piedi sopra un’aiuola e fumare una sigaretta e bere una birra.
Fu una partita sofferta. Sofferente. In fremito. Anche perché il giorno dopo avevo l’esame di Penale e il risultato della partita avrebbe determinato – l’ho sempre saputo – l’esito della mia prova. Volevo crederci. A tutti i costi.
Ricordo che la tavolata era stracolma di amici. Mangiavamo felici.
Con le molliche di pane lasciate sulla tavola perché distrattamente ingoiavamo senza sapere cosa mettevamo tra i denti. Gli occhi fissi davanti allo schermo. Gli insulti. Il tifo. Il deliri. E il casino allucinante di un Paese in fremito.
Quando Grosso mise a punto il segno capimmo di aver vinto. Che la nostra nazionale aveva vinto, e iniziammo a lavarci con il prosecco.
Aprimmo le bottiglie di vino e lo spruzzammo ovunque. Il mio telefono che era rimasto sopra al tavolo si inondò di vino, tanto che un mese dopo quando venni a Roma in ferie, andavo in giro col telefono che sapeva ancora di prosecco e dentro aveva delle bolle d’acqua mai asciugate.
Ma quella sera. Quella sera facemmo una grande festa. Prendemmo la macchina. Issammo la bandiera sopra il tettuccio e andammo strombazzando a Castelfranco Veneto. In giro esplodevano le strade. Formicolavano i tifosi. Brulicavano i fanatici. Si addensavano gli sfegatati.
Tutto intorno la città esplodeva.
Le strade rigurgitavano eccitati.
Le auto sfilavano e sfavillavano a passo d’uomo con issate le bandiere e la gente sedeva sopra le cappotte. In giro non era altro che un’esplosione di festa. E di esultanza.
Passai la notte fuori. E il giorno dopo mi presentai all’esame.
Ero così talmente contenta e felice che l’Italia avesse vinto – io sono una tifosa fuori maniera – che riuscì ad affrontare l’esame credendoci e basta. Avevo studiato sì, ma non come avrei voluto. In più non avevo dormito. E avevo ancora il telefono che sapeva di prosecco.
Il giorno dopo presi l’auto. Palazzo del Bo. Padova. Facoltà di Giurisprudenza. Mi presentai all’esame. Ricordo ancora che il professore come prima domanda mi chiese le attenuanti generiche.
Figlio mio le attenuanti.
Sfilai un 24. Il professore lo segnò nel libretto. Mi guardò il volto. Le borse della spesa mi comparivano sotto gli occhi. Infilai in tasca il libretto. Presi le mie cose. Uscii dall’aula.
Mi accesi una sigaretta e ricominciai a fare festa.
Le cose accadono. Solo se ci credi.
Forza Azzuri.

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