Oggi mi è successa una cosa. Ero intenta a scrivere in un bar, uno di quei bar dei paesi di un centro dove la gente tutta si conosce e dove se entra qualche “foresta” tutti si chiedono chi sei. Allora entro in questo bar. Vado in bagno. Ordino da bere. Ordino la mia dose di caffè. E mi siedo fuori. Tirava un leggero venticello caldo che all’ombra si stava pure bene. Insomma sono lì, apro il computer. Faccio mente locale e mi metto a lavorare. Ma non ho tempo di pensare al caffè. E nemmeno all’acqua e limone che intanto stava ribollendo di caldo sopra il tavolino. Il caffè rimane lì per una buona mezz’ora. Solo la sigaretta riesce a non distrarmi. Insomma sono lì che faccio il mio lavoro, con la testa china, la schiena contratta, i pugni tesi e gli occhi fissi, quando sento che mi passa accanto una persona. In quel momento però dovevo fare un incrocio di dati. Di numeri. Di cifre. Di cose che devono portare e quindi non riesco a guardare altrove. A pensare ad altro. Avete presente no? Quando siete talmente concentrati che può cadere pure il mondo e voi ve ne fregate. Una volta a me è successo. Sì. Stavo scrivendo un pezzo che doveva andare via il prima possibile, quando a un certo punto, classico temporale estivo del Nord, è andata via la luce, ha iniziato a grandinare, i fogli hanno cominciato a roteare per la stanza, fuori l’Apocalisse, e io lì ferma immobile con le finestre aperte, impassibile per cercare di finire. Mi sono accorta che dentro era entrata l’acqua dopo un’ora che il cielo aveva smesso di tirare giù tutto. Ma insomma vi dicevo di oggi. Allora sono lì che sono intenta a scrivere e incrociare quando sento una persona dietro di me. E una. E due. E tre volte. Finisco una parte del mio lavoro. Allento la tensione. Alzo lo sguardo, fumo una sigaretta e tac. Arriva la cameriera. Una cameriera molto dolce. Gentile. Che tutta timorosa ma con una dose di coraggio mi dice: “ma cosa scrivevi prima?”. Allora io la guardo. C’avrà quindici anni in meno di me. E le dico: “figlia mia ancora non te lo posso dire, faccio la giornalista”. Questa sgrana gli occhi. Mi guarda. E mi dice: “Davvero????? Oddio wow!!!”. E io: eh sì. Poi a un certo punto continuando a fissarmi con le pupille che si ingigantivano sempre più mi dice: “complimenti però. Hai coraggio”. Già coraggio. Allora inizia a chiedermi cosa scrivo. Dove. Quando. Come. Perché. Se l’ho sempre voluto fare. Se mi piace. Come si fa a entrare. Che lei vorrebbe fare politica ma non sa da che parte iniziare. E ora non ricordo nemmeno il nome di questa ragazza. Che mi ha lasciato pure mezzo croissant. Cioè mi ha detto che il suo nome corrisponde alle ultime tre lettere del nome di suo padre e alle ultime tre lettere del nome di sua madre. E che i suoi genitori sono albanesi. Insomma lei continua a farmi domande. E io tento di raccontarle. Sempre così quando ti chiedono che mestiere fai. Ci stanno alcuni che sgranano gli occhi e ti dicono: “ma di lavoro?”. Allora io rispondo loro: “No sai, siccome a casa non ho il giardino, il tempo che tu impieghi per tagliare l’erba, ecco io lo investo per scrivere”. Ma per favore. E poi invece ci sono quelli, e sono i più belli, che spalancano gli occhi e ti dicono: “veramente??? Che strano incontrare un giornalista. Non ne ho mai visto uno”. E così ti guardano come se fossi un mostricciattolo, un animale in via di estinzione, un insetto da scacciare. Un po’ come dire: “sai ieri ho visto un vermiciattolo sul mio giardino”. “Davvero? Non ne ho mai visto uno”. E poi. Poi ci sono quelli, e sono frequenti, che vogliono sapere com’è la giornata tipo del giornalista e quindi si siedono al tavolo con te, tu puoi pure essere in compagnia del Papa, e iniziano: “ma spiegami com’ è la tua giornata. Cioè ti svegli al mattino e cosa fai?”. Allora tu gli spieghi che ti svegli al mattino e leggi i giornali. Ti fai il caffè. Vai in bagno. Fumi. Se ti avanza tempo prima di uscire pulisci. Tutte cose che fanno i comuni mortali. E poi. Poi gli dici che se la tua agenda al mattino prevede cinque cose oppure sei. Ecco magari ti puoi trovare a sera che hai lavorato come una matta, ma che quelle cinque cose non le hai fatte, perché ne sono subentrate altre, perché c’erano altre cose più importanti da fare, perché la stampa segue gli eventi, perché ti si sono accavallati gli impegni, perché il tipo che doveva arrivare non può più venire, perché suvvia la stampa è bellezza tuttavia!

E allora loro rimangono sbalorditi e ti chiedono sì insomma come fai. E allora gli dici che si fa. Che lo senti dentro. Che lo fai perché è parte di te. E che ti piace. E poi. Poi ci sono alcuni che alla fine ti dicono: “ma scusa, ma ne vale la pena? Cioè in un mondo come quello di adesso, dove ci sono i social, dove l’informazione è controllata”. Insomma alcuni partono con tutte ste cagate a cui tu vorresti anche rispondere. Ma ti limiti a fissarli e dire sì. Solo una volta ho chiesto a uno che ammazza galline se ne valesse veramente la pena. Ma capite poche volte, solo se ti addentri nella campagna. E allora vi rispondo qui. Sì che ne vale la pena. Perché il giornalismo come lo intendiamo noi non è fatto di comunicati stampa, di dichiarazioni prese fatte confezionate per lustrare qualcuno che appena volti il culo ti dà del giornalaio. Il giornalismo come lo intendiamo noi, quelli controcorrente, è fatto di inchieste, di reportage, di gente che rischia la vita in prima linea sotto i colpi delle bombe, è fatto di realtà da svelare, di mondi da scoprire, di polvere da sollevare. È fatto di puntini da unire. Senza niente pronto. È il giornalismo della strada. Di quelli che per capire devi essere come loro. Il giornalismo dove ci si sporca con coraggio e senza avere paura.

Perché poi. Poi alla fine, parlando del più e del meno la cameriera dal nome che unisce le lettere del padre e della madre mi fa: “alla fine se sei onesta con te stessa, non perdi mai”.

Già. E allora sempre controcorrente.

Ma mai controcuore.

Dedicato a chi ha coraggio.

E non ha paura.

#nottesbetti ❤️


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