Lettera a mia zia 

Erano giorni che dovevo vomitare parole ma non ci riuscivo. Poi ieri, alla vista di quell’uomo e di quella bara, ho sentito una pallottola dritta, fissa, dentro lo stomaco. Si appallottolava come si avvolge la valigia con il cellofan all’aeroporto. Sempre più veloce, sempre più grossa. Poi piano piano risaliva, percorreva l’esofago. E arrivava in gola. Dovevo vomitarla. E dovevo vomitarla subito. 

Una bara al centro e i parenti dietro. Io l’ho visto quell’uomo accompagnare la moglie per l’ultimo viaggio. Camminava a rilento quasi zoppicante con gli occhi lucidi pieni di pianto. Inseguiva da solo quel carro funebre che lentamente si incamminava verso il campo santo. Come a dire: “non temere mia cara ti accompagno io”. La persona che sto descrivendo non è una persona qualunque. È mio zio. Perché la settimana scorsa mia zia, la mia prima baby sitter, ci ha lasciati. Non sono riuscita a salutarla come avrei voluto. Non sono riuscita a farlo. Ma è così. Ed è la vita. A volte così frenetica. A volte così assurda come la morte. 

L’altra sera tornando a casa dal lavoro, con mille pensieri e il pensiero di mia zia in testa, ho aperto il frigo. Era tardi. Dentro c’era un pentolino di sugo. Sugo per cena notturna mi sono detta. Io, che il sugo, se non so cosa farci, lo spalmo sui biscotti per colazione. Infatti tengo sempre un po’ di sugo, non per farci la pasta. Quando ho aperto quel pentolino ho sentito subito un lieve profumo. Quello del pomodoro fresco. Quello che da piccola quando mia madre mi portava da mia zia, sentivo sempre. Quello che capivi che era ora di pranzo. Quello che sentivi dentro il naso. Quello che ti entrava dentro le narici e pensavi già al pomeriggio quando si usciva con i compagni di gioco e ci si arrampicava sugli alberi. Quel profumo che ti rimaneva addosso anche la sera quando tiravi fuori dallo zaino l’astuccio e sapeva di pastasciutta. Allora io prendevo, svuotavo l’astuccio, lo lavavo e lo mettevo fuori sul balcone all’aria aperta tutta la notte. Così la mattina successiva, per rimettere le cose dentro l’astuccio, perdevo l’autobus. 

Perché la verità è che io non ho mai sopportato l’odore di pastasciutta. Ma preannunciava il momento del pranzo, l’avvicinarsi del pomeriggio dove giocavo per le strade, sui canali, sopra gli alberi, ai famosi campi sportivi. Dove andavo a suonare i campanelli per poi scappare, dove tiravo quattro calci in porta, mi rotolavo sull’erba e correvo fino a sporcarmi di terra, dove con il pallone mi divertivo a lanciarlo dentro le case, magari d’estate, cercando di centrare la pentola sul fornello della cucina. Perché io quella parte di storia in cui si poteva ancora giocare per strada e si poteva ancora tenere i cancelli spalancati, l’ho vissuta. Bé l’altra sera quel pentolino di sugo aveva un profumo strano. Era dolce. Avvolgente. Un sapore tenero. In qualche modo mia zia c’era. So che lei ogni giorno mi leggeva e quando vedevo il suo click comparire sapevo che stava bene, che in qualche modo la rasserenavo. A mia madre aveva detto: “Leggo sempre quello che scrive Serenella. Mi tiene compagnia, almeno so le notizie, mi tiene in contatto con il mondo”. Mi fa stare bene pensare che le parole, le nostre parole, possano servire a qualcuno. Pensare che possano fare da ponte a chi può guardare il mare dalla sponda. 

Zia, la settimana scorsa quella sponda è crollata. L’alta marea l’ha invasa, portandosela via. Ma, credimi, ogni volta che aprirò il frigo ci sarà sempre un pentolino di sugo. 

Tua #sbetti

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