C’è qualcosa di terribilmente atroce e crudele nel ritenere che 75 coltellate non siano crudeltà. Ma semplici gesti improvvisati dettati dall’inesperienza. 

Mi viene da chiedere inesperienza di cosa. Dato che auspico di vivere in un mondo in cui le persone non abbiano una certa destrezza e una certa abilità nell’usare la lama. A meno che non vogliano anche fare dei corsi per insegnare ad accoltellare la gente.

E trovo sia anche particolarmente crudele arrivare a poter escludere l’inesperienza di 75 fendenti, supponendo implicitamente che ci possa essere qualcuno che invece quella esperienza ce l’abbia. 

“Si ritiene – sentenziano i giudici della Corte d’Assise di Venezia – che l’aver inferto 75 coltellate non sia stato per Turetta un modo per infierire con crudeltà o per fare scempio della vittima… ma conseguenza dell’inesperienza e dell’inabilità”. 

Per questo scempio, non so, a questo punto, se complimentarmi con l’avvocato difensore o con la capacità di giudizio e il grado di intelletto dei giudici. Un giorno nelle aule di tribunale sentiremo dire: “Salve sono tizio. Sì ho ammazzato una donna, ma sa, ho esperienza nel lancio di coltelli, quindi anziché mollare 75 coltellate, me ne è bastata una”. Oppure. “Salve sono caio, sa mi scuso per aver ammazzato la mia ex. Ma non sapevo come si maneggiava un coltello e quindi per sincerarmi che fosse morta per davvero le ho sferrato 94 coltellate perché almeno ero certo che lei non emettesse più alcun respiro”. 

Sentenze di questo genere oltre a creare gravi precedenti, riaprono vecchi, ma mai sopiti, scenari. Quelli delle scusanti. Delle giustificazioni. Quello dell’impunità. “Sì l’ho presa a botte ma qui si usa così. È un fatto privato. Non sono stato educato”. “Sì è vero l’ho uccisa, ma non non ho fatto a posta”. “Ho preso la lama si è vero, ma ero inesperto, non sapevo che se incidi una lama nel collo a una donna questa possa rimanerci secca”. Del resto, i processi per violenza sono sempre stati così. Ci si trincera dietro a dei cavilli. Si studiano strategie. Si squadernano sopraffini tecnicismi. Si studiano congetture che possano reggere. Si elaborano moventi. Si calcolano pene. Tutto al fine di far scontare al femminicida la minore pena possibile. 

Una volta ho intervistato una donna sopravvissuta a 17 coltellate. Il suo ex avrà fatto sì e no due mesi di carcere. Del resto, “Era un bravo ragazzo”, diranno. “Le faceva i biscotti. Le portava il caffè a letto”. Aveva sempre giocato con i peluche, non sapeva come funzionasse un coltello. La vittima in un processo per violenza risulta sempre colpevole di qualcosa. Lei lo aveva provocato. Lei lo aveva lasciato. Lei lo aveva respinto. Lei lo aveva rifiutato. Lei aveva continuato a fare la sua vita, aveva detto la fantasiosa difesa di Turetta. Lui invece passa sempre per lo stinco di santo. Lui era fragile, lui non ha retto, lui si è sentito tradito, lui soffriva la separazione, lui l’ha presa, l’ha strangolata, l’ha massacrata di botte ma ha avuto un raptus. Non voleva farlo. Non l’ha fatto a posta. 

Da oggi apprendiamo anche che lui l’ha ammazzata. Le ha dato 75 coltellate. Ma non è stata crudeltà. È stata inesperienza. Voleva solo sincerarsi di aver preso bene la mira. 

Vergogna è l’unica parola. 

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