
Venerdì scorso sono stata al processo Turetta e ne sono uscita devastata. Trovate i miei servizi su Libero. A un certo punto son dovuta uscire un attimo dall’aula, a prendere aria e bermi un caffè, perché non ce la facevo a reggere. E non so nemmeno quanto sia stato giusto esporlo così, all’attenzione mediatica, al pubblico ludibrio, alla vergogna, all’altare della colpa. Turetta, sia chiaro, per me merita l’ergastolo. Ma quello di venerdì, vederlo, sentirlo, è stato uno spettacolo osceno di una sofferenza immensa.
Le ammucchiate. I microfoni. La gente che correva. C’era perfino qualcuno che si faceva i selfie. I fili. I cavi. Le connessioni che saltavano. Mai nessuno che abbia un po’ di tatto. Pochi devo dire. Bisogna sempre fare spettacolo dello spettacolo.
Quando l’ho visto entrare in aula ero appena entrata. Ero riuscita ad accaparrarmi un posto laggiù in fondo dove non faceva casino il mondo perché fuori pareva il mercato. L’ho visto e mi si è bloccato lo stomaco. Tanto che il caffè dall’esofago, sceso al basso ventre, è subito finito dentro la tazza del cesso.
Turetta è venuto avanti col capo fisso verso il muro. Le due guardie dietro. Aveva una felpa blu grigio. Il volto incavato. Smunto. Infossato. Le mascelle che gli sagomavano le ossa. L’acne. Lo sguardo di ghiaccio. Perso. Prima si siede accanto al suo legale. Poi va a sedersi al banco degli imputati e da lì cominciano le domande. È il pm, Andrea Petroni, bravo non c’è che dire, che lo incalza. Lo tallona. Lo sollecita. Lo pressa. Pareva una partita di calcio, dove ogni domanda era un autogol assicurato. È il pm che gli fa domande e non gli fa passare niente. Niente. Niente. Non una virgola. Non un sospiro. Non un pensiero. Il pm indaga su tutto.
Ah ma allora è vero che lei aveva guardato come rendere irrintracciabile un’ auto? Ah ma allora è vero che lei aveva guardato come far sparire tutto? Ed è vero che lei aveva guardato dove comprare gli scotch? Ha capito la domanda? L’ha capita? Come fa a non ricordare? Non mi pare difficile. Ha compilato lei la lista. La lista è quella delle cose da fare per far sparire Giulia. Per far sparire tutto.
Conferma che lei aveva due coltelli? Sì? E cosa ci faceva? Avevo due scotch. No gli scotch erano tre. Ma torniamo ai coltelli. E cosa ci faceva con due coltelli? Quando li aveva messi? Ci può dire per favore quando aveva messo i coltelli in macchina? Ma Turetta. Turetta non rispondeva tergiversava, dialogava come in un film muto con se stesso e i suoi demoni. Silenzi. Pause. Respiri. Tentennamenti. Brontolii. Singhiozzi. Tra le parole passavano pause di media di otto nove secondi. Frasi sconnesse. A volte impronunziabili.
Ma quelle poche parole che ha detto, lì dentro, in quel bunker dove non ci sono finestre, suono risuonate come bombe. Bombe. Macigni. Turetta non guarda mai in faccia il padre di Giulia. Turetta non pronuncia mai il nome di Giulia. Lo pronuncerà dopo la pausa delle 13. Un interrogatorio fatto di: “eh… sì… cioè… ma appunto… io volevo…”. Poche parole che però sono bastate a far capire la premeditazione. “Io avevo tanti pensieri per la testa – dice Turetta – Avevo pensato di… eh… Sì… quella sera quando ho pensato questo piano… questa cosa. Ho pensato di fare… questa cosa… di una eventuale… di rapirla… con me… stare qualche tempo un po’ insieme… farle del male e…”. Finisca la frase. Continui. “Li avevo messi – i coltelli – perché avevo avuto il pensiero di suicidarmi e casomai usarli… Li avevo presi perché avevo pensato di aggredirla”. “Togliere togliere la vita a lei e poi a me. Appena uscita dalla macchina lei era bellissima… non volevo se ne andasse così… Ha iniziato a urlare aiuto… L’ho afferrata per le spalle e le ho dato due tre strattoni… Devo averla colpita anche in un certo momento. Colpita anche all’interno dell’auto. Mi son girato l’ho colpita però non ricordo come… mi sembra un colpo sulla coscia… poi non lo so…”. “Ricorda di averla colpita una o più volte?”. “Questo non ricordo nel senso son sicuro… almeno una volta sì… poi non so… non so dire quanto dove… perché anche un po’ non so … io … facevo forse un po’ anche non guardando bene dove stessi colpendo, ma tiravo colpi a caso…”.
Ora io non so, se sia giusto tutto questo, se sia giusto esporre alla deriva di chi trova nel morbo una valvola di sfogo. Perché questa cosa non passa. Va affrontata delicatamente. Con le parole giuste. L’eccitazione passa. L’abisso del dolore no. Poi, quando sono uscita dall’aula alla fine, sono dovuta correre in bagno. Ancora. Mi sono accesa una sigaretta. E ho pensato a Giulia. La sua presenza era in aula.
sbetti


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