Facciamo molto presto in Italia a passare da una parte all’altra. La gente, ho imparato a mie spese, va dove tira il vento. Se il vento tira di qui, loro vanno di qui. Se tira di lì, vanno di lì. In tre giorni siamo passati dall’inveire contro un padre travolto nell’abisso del dolore che cercava di consolare il figlio reo confesso di un delitto tremendo, orrendo, cupo, impenetrabile e incomprensibile, all’inveire contro tutta la categoria dei giornalisti che – vi accorgerete di quanto avrete bisogno dei giornalisti – sarebbe tutta composta da pezzenti e farabutti perché non farebbero il proprio dovere secondo umanità ed etica. Mai che riusciamo a tenere la barra dritta, senza cadere nel tranello comodo della reta che ci imbroglia e ci imbriglia tutti, per dimostrare ai nostri super ego ignoranti e vanesi che c’è sempre un colpevole. Nessuno che si sia chiesto perché quegli aberranti quanto insensati dialoghi, dalle dubbie interpretazioni, frutto di un momento di paternità condensato e intriso di delirio e dolore, erano dentro il fascicolo, chi ce li abbia messi e come mai. Se anche stavolta, la magistratura farà finta di niente. Ma ormai, ormai la frittata è fatta, le uova sono rotte e quello che si può fare è contenerla in una padella onde evitare che sbrodoli e insozzi tutto. Quando sabato mattina ho appreso la notizia, all’inizio ve lo devo confessare, mi sono fatta anch’io tirare giù nel baratro ingannevole delle emozioni.
Quelle frasi hanno fatto e fanno discutere, e sinceramente come ho risposto a un mio collega, sarebbe stato inquietante il contrario. Come quando ti gettano le uova addosso e senti subito quello schifo e quell’odore di marcio sul corpo e sul volto, così è accaduto quel mattino. Poi però con il passare delle ore, le uova lasciano il posto al tuorlo che scivola lentamente verso il basso, raggiunge le gambe, i piedi, portandosi appresso una sensazione di sporco e violenza. Solo che poi fai la doccia. Ci ragioni un attimo sopra, passa la notte, il padre il giorno dopo, costretto all’umiliazione pubblica e straziato e straniato dall’umanità alterata del mondo virtuale, supplica tutti di non badare a quelle cose per favore perché le ha dette, al primo colloquio col figlio il 3 dicembre scorso, mentre dall’orlo del suo baratro di dolore, tendeva la mano all’erede sull’orlo dell’altro precipizio, quello di pensare al suicidio. E voi lo sapete come lì dentro sia molto facile. Nel giro di poche ore, sempre perché la gente va di qui e di lì a seconda di dove tiri il vento, un altro colpevole bisognava pur trovarlo e quindi l’asticella della sfigurante gogna si è spostata dal padre di Turetta ai giornalisti responsabili di questa agghiacciante “non notizia”. Come un artista di strada che muove le sue marionette, il palcoscenico del dolore si è spostato da un’altra parte e ha raggiunto ancora una volta cime tempestose. Zuffe da pollame, gente che berciava e sbraitava, inveiva nei social, avvocati che mandavano comunicati, cercando di sventrare la paternità intercettata e un tormento così intimo di quando ti ritrovi come figlio un assassino, che non è un reato ma una disgrazia, e cercando di profanare fino al disgusto ancora una volta quel flusso di parole facenti parte di un colloquio in carcere.
La gente, e mi viene da dire per fortuna, è rimasta sconcertata da quelle frasi, complice il fatto che quello che ha fatto Turetta lo “sappiamo” tutti. Nessuno potrà mai, spero, dargli qualche sconto di pena. Però ora dalla profanazione della dimensione intima di famiglia, siamo passati al vilipendio di una professione, quella del giornalista, dovuta anche al fatto che tutti si sentono tutti giornalisti e manco sfogliano i giornali. Ma – e occhio, perché questo è un terreno scivoloso e molto pericoloso che come un sottopasso gonfio d’acqua ti porta giù – siamo transitati dall’assolvere completamente un padre – e ci sta, per carità di Dio – all’assolvere anche le parole di un padre. Le frasi pronunciate da Nicola Turetta le abbiamo impresse tutti. Ma ora condannando i professionisti dell’informazione, si cerca solo un altro colpevole senza che tutto questo serva a far riflettere.
Le frasi sono state dette. Cosa cambia? Cambia il significato di quelle parole? Non sarà svilendole e togliendo loro il significato, che educhiamo alla non violenza contro le donne. Tanti bei discorsi sulla prevenzione non servono a niente, se ogni volta cerchiamo un colpevole e non cambiamo i termini. Se non cambiamo l’approccio con le persone, per cercare di far capire, a chi ancora non lo capisce, che una persona non è tua né di nessun altro. Quelle parole, seppure in quel contesto prive di senso perché gocciolanti di amore e strazio, dovrebbero servire a far riflettere. Destituirle di significato, non porta a niente. E invece come ogni volta si perdono occasioni. E si perdono donne. La rieducazione del condannato non passa sminuendo quello che è stato. E a questo ovviamente, ci penseranno giudici educatori psicologi. Ma c’è una cosa che mi ha fatto schifo in questi giorni – oltre a tutto questo baccano a cui non riesco a togliere il pensiero, perché mi pongo seri dubbi e molte domande, sul fin dove possiamo arrivare – ed è stato che molti continuavano a condividere la foto del colloquio tra Filippo e il padre. Come se provasse qualcosa. Non avete mai visto due persone sedute a un tavolo a parlare?
In un Paese che deve mettere le tende perché altrimenti la gente guarda dentro le case, solo questo ti puoi aspettare. La gente, diffidente, ipocrita, opportunista, in Italia ci si eccita ancora se guarda dal buco della serratura. E quel sentimento malato ha tolto l’unica foto che in questi giorni aveva senso mettere. Quella di Giulia, che per essersi fidata, ci ha rimesso la vita. Non era questo il rumore che lei voleva. Ora credo che questo silenzio lo dobbiate a lei.
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