Quando arrivo nella sua casa di Villanova di Camposampiero nel padovano, Giuseppe Bassi, 105 anni, compiuti il 3 febbraio scorso, sta leggendo il giornale. Non capita tutti i giorni di incontrare un tale miracolo della natura. Un uomo che ti stringe la mano con ancora una tale foga addosso.
Le braccia spalancate che agguantano le pagine e quel volto immerso tra la carta, dipingono un’immagine che mai si vorrebbe vedere annacquare. E non posso pensare di raccontare la sua vita con i colori dell’acquarello perché per quegli anni lontani devo usare soprattutto il nero: la prigionia, la sofferenza, il dolore, la tragedia. Colore che lui – uno degli ultimi, se non l’ultimo per davvero, sopravvissuti italiani ai gulag russi – dopo la liberazione, ha intonso e amalgamato con i colori dell’ocra, dell’oro e dell’argento, e della sua vita ne ha fatto un capolavoro.
Due figli, Carlo e Alberta; tre nipoti.
Benedetta, pensate, che sta in questi stessi metri quadri, è nata, dopo 100 anni, il giorno prima del nonno. Qui sotto lo stesso tetto.
La vita che scorre, l’una il prolungamento dell’altra.
Gigante negli anni, minuto nel fisico, ancora per colazione ogni mattina rigorosamente beve latte e Nesquik con sbriciolati dentro otto biscotti. Appena entro nel salone, si alza, balza in piedi, mi accoglie.
Fatto prigioniero dalle truppe russe e deportato nei campi di concentramento, in prigionia ci rimase 42 mesi, dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946 passando per i campi di Tambov, Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino.
E questa è la mia intervista uscita su Libero

La prima domanda sorge quasi spontanea. 

Ma dove la trova la forza a 105 anni? 

“I 105 non li sento come peso. Si affronta la vita in modo normale, come si era vissuti prima, si continua a vivere con quella normalità”. 

Bassi, una vita tanto normale non direi, ha fatto la campagna di Russia…

“Sì, ho fatto il mio dovere di militare, ero sottotenente e ne sono uscito vivo”. 

Quando capì che l’avrebbero spedita in Russia? 

“Ma in realtà sono stato io. Ricordo che il 3 febbraio 1942 incontrai un vecchio maresciallo della caserma di Padova. Aveva in mano un foglietto: stava arruolando qualche soldato per andare in un reggimento che sarebbe partito per la Russia. Allora gli ho detto che mettesse in nota anche me perché volevo essere come tutti gli altri. La sera quando tornai a casa raccontai a mio padre il fatto e lui mi disse: se questa è la tua volontà”. 

E poi cosa accadde? Come è finito nei campi di concentramento? 

“A dicembre arrivò la chiamata. Noi eravamo in linea sul Don, vede qui da questa cartina… dal fronte del Don fino alla valle di Arbusowka, la valle della morte, nei giorni precedenti si era scatenata l’offensiva russa e qui mi hanno fatto prigioniero”. 

Che giorno era?

“Era la Vigilia di Natale del 1942”. 

Le va di raccontarci come l’hanno presa. 

“Siamo stati circondati ad Arbusowka, abbiamo resistito alcuni giorni senza mangiare, dormendo al ghiaccio. Dopo alcuni giorni però ci siamo dovuti arrendere, non avevamo cibo, da bere, non avevamo armi per difenderci. Ci avevano ormai stretto in una tenaglia; tre carri armati tedeschi in nostra difesa ci giravano attorno ma finita la benzina è avvenuta la resa”. 

E da lì?

“Da lì, dalla valle della morte fino ai lager il percorso fu tutto a piedi”. 

A piedi? 

“Sì, molti morirono durante le marce, almeno ventimila persone morte nel tragitto per raggiungere i campi. Insomma, era dura. Poi una volta giunti nei campi, durante il giorno si lavorava con turni massacranti”. 

Vi davano da mangiare? 

“Sì, un tè caldo al mattino, un pezzetto di burro e un pezzo di pane. A mezzogiorno c’erano zuppa e cassia, sa cos’è la cassia?”. 

No… 

“Era una polentina di miglio, avena, orzo, grano e mais. Abbiamo vissuto così per quattro anni ma ci sono stati prigionieri che sono stati trattenuti e hanno fatto quattordici anni di prigionia. E dire che nel mio campo non ci furono episodi di cannibalismo”. 

Mio Dio. E dove?

“Vicino al mio, quello di Crinovaia. C’era una grande ex caserma della cavalleria dello Zar e in questi capannoni sono finiti circa 30 mila prigionieri del Corpo d’Armata Alpino. Qui si sono trovati alla mercé di soldati russi crudeli e fanatici. Siccome da mangiare non ce n’era, per cibarsi andavano alla ricerca di polmoni, fegato, parti del corpo che si potessero cuocere con facilità. Squartavano i cadaveri e quello era il loro cibo”. 

Se la sente di raccontarci la vita nel campo? 

“Si lavorava duro. E si scavavano le fosse comuni dove buttare i corpi. Ma io avevo localizzato la zona dove scavavamo le fosse, e questo fu fondamentale”.

Si spieghi meglio.

“Io ho sempre fatto il geometra. E lì disegnavo sulle cartine delle sigarette, era l’unica carta che avevo, ogni Natale facevo un disegno della prigionia. Disegnavo l’interno del campo. Ne facevo settanta, ottanta copie e le mandavo agli amici e grazie ai miei disegni – vede questi? – vede – vede – Ecco, grazie a questi disegni, dove magari indicavo il segnale della direzione del vento, poi è stato possibile rinvenire le fosse comuni”. 

Oh mio Dio, questa storia è bellissima. 

“Adesso alcuni miei disegni sono contenuti all’interno del museo del campo di Suzdal con una sezione dedicata”. 

È più tornato lì? 

“Sì due volte, sono cittadino onorario dal 2004. E dire che sono vivo grazie a un anello”. 

Ce la racconti. 

“Quella mattina mi avevano tirato fuori dalla fila per fucilarmi, facevano così loro, poi il soldato russo si è accorto che alla mano avevo un anello. Lui diceva: “Davajte” che significa dammelo in russo. Io gliel’ho dato, lui si è dimenticato del kaput e io sono ancora vivo. Sa i russi erano molto attenti agli oggetti di valore. Come agli orologi da polso”. 

Lei ne aveva uno? 

“Sì, ce l’ho ancora, glielo prendo. Per i russi l’orologio da polso era una rarità, loro non li avevano. Siamo stati noi soldati a portare gli orologi. Un orologio era valutato anche tre chili di zucchero e quando l’ho saputo ho preso l’orologio e me lo sono nascosto nella scarpa, così ero l’unico a sapere sempre l’ora”. 

E da qui il nome del suo docufilm? Perché lei ha fatto anche un film. 

“Eh sì, i miei compagni di stanza mi chiedevano: “Bassi! L’ora?”. E da qui il film “Bassil’ora”. Poi il 4 novembre di due anni fa mi fecero Cavaliere della Repubblica Italiana”. 

Quando la rilasciarono dal campo di prigionia?

“Dopo quattro anni, il 7 luglio 1946, dopo quattro anni tornai a casa”. 

La guerra, le guerre… nel 2024. Che effetto le fa?

“La guerra ancora nel 2024 non è possibile. Per quanto riguarda la Russia, io so cosa significa Russia. Per il resto, guardo le immagini, torno indietro con la testa e non posso non pensare alla guerra come a qualcosa che faccia soffrire”. 

Serenella Bettin 

sbetti

Libero, 16 febbraio 2024

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