Quel figlio me lo sono trovato davanti. E non sapevo che fare. Ha guardato quella telecamera come fosse una pistola. E mi sono sentita morire.
Questa settimana sono stata a Reggio Emilia. Ci sono stata per trattare una casa occupata. Una di quelle case che gli incivili occupano e rimangono impuniti. Tutelati dallo Stato.
Lui e lei, i proprietari, sono di Napoli. Venuti in Emilia Romagna negli anni 90 per lavoro, in Emilia ci sono rimasti. Fino a qualche anno fa avevano una casa. Un appartamento. L’appartamento sta lì in un quartiere di Reggio Emilia che ti pare di stare in un carcere. Dio se sembra un carcere. Sembra un carcere capisci. Un carcere. Le persiane abbassate. La gente che urla. La madre che se la prende col figlio. Il malato di mente che gironzola dicendo sempre le stesse cose. Il figlio che non va a scuola. L’immigrato. Il carpentiere sottopagato. Il ragazzo che c’ha una crisi di nervi e tira un pugno sul muro. C’ha la maglietta larga. E i pantaloni blu abbassati. Ha i nervi ai polsi. Gli occhi che orbitano fuori dalla testa. Le bave alla bocca.
Giuseppe e Jolanda decidono di andarsene da quella casa e sempre a Reggio Emilia comprano un’altra casa. Fanno un mutuo perché non c’è la fanno a comprarla. In questa vita che concede spazi agli immigrati irregolari, la gente che lavora fa finanziamenti che porta in tomba. Solo che a garanzia della prima casa ci mettono la prima. E la prima la affittano.
L’affitto va a a una famiglia di nigeriani. Gilbert Christopher (in foto) e Gilbert Catherine. Hanno tre figli. Lui fa il magazziniere. Faceva. Fa. Forse. Non lo so. Lei invece non fa niente. E l’affitto non lo pagano da oltre un anno.
Allora ci sono stata. Li ho aspettati. Ho suonato loro il campanello. Più volte. Gliel’ha suonato il proprietario. Abbiamo battuto sulla porta. Lei c’ha sfottuto. C’ha preso per i fondelli. Ci ha riso dietro, c’ha riso in faccia. Siamo saliti di nuovo. Si sono fatti negare.
E poi è arrivato a casa il figlio. Noi ce ne stavano su al terzo piano davanti la porta della loro casa. Quando si apre quella dell’ascensore. Da qui sbuca il figlioletto. C’avra avuto all’incirca 10 anni. Aveva una cartellina di tecnica in mano. Sai quelle cartelline che ti fanno comprare a inizio anno per metterci dentro il materiale che a volte non sai manco come usare.
Alle spalle c’avea lo zaino. E alla vista della telecamera non sapeva come fare. Come una lucertola che ti entra in casa e appena si sente minacciata cerca di sgattaiolare via. Di scappare. Di nascondersi. Con un passo è indietreggiato. Noi eravamo in otto. Lui era da solo. C’ha guardato. Ha guardato quella telecamera. L’ha guardata come fosse una pistola. E mi sono sentita morire, gli ho detto: “Vai, tranquillo. Non ti facciamo niente”. Lui, come un carcerato in esposizione pubblica in preda alla vergogna, si è fatto coraggio. Si è fatto avanti. Ed è entrato. Tempo due nano secondi ed era dentro. Io ho chiamato la madre. La stessa che poco prima mi aveva riso in faccia. Mi aveva deriso. Mi aveva oltraggiato, mi aveva detto che avrei potuto mettere lì pure una branda. Tanto lei non sarebbe scesa. E mi sono sentita morire per il figlio. Mi sono chiesta che insegnamento gli potesse dare una famiglia del genere. Una famiglia che se ne frega. Che se ne fotte. Che ti fotte.
Mi sono chiesta che cosa potesse lasciare una madre del genere che non fa capire ai propri figli che l’affitto va pagato. Che bisogna lavorare. Contribuire alle spese. E mi sono detta che non ci sarà mai integrazione per queste persone che le anime belle vorrebbero tutte in Italia ma nelle case degli altri.
Mi auguro solo che quel figlio un giorno capisca che per vivere in una casa bisogna pagare l’affitto o comprarsela.
Il mio servizio a Fuori dal Coro.
sbetti

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