Ho letto con una fervida attenzione e con una ruggente immaginazione il pregiatissimo articolo di fondo di Alain Elkann – con due N per favore – pubblicato sul quotidiano Repubblica. E giuro mi sono quasi commossa.
Per un attimo mi sono venuti in mente i mangiatori di patate di Van Gogh. Che dire, prosa coinvolgente, pregnante, vibrante, fremente. Fremeva in tutte le sue corde. In tutte le sue note. Trasudavano tutta la fatica e il sudore di chi può permettersi solo lino stazzonato, sgualcito, forse manco stirato.
Scrive l’Hemingway de noantri nel suo breve racconto d’estate, edizione limitata, che gli è capitato di infilarsi nel treno per Foggia e che non pensava che si potesse ancora adoperare la parola “lanzichenecchi”. Specifica il nostro premio Pulitzer che era su una carrozza di prima classe di un treno Italo. E che malgrado il caldo indossava “un vestito molto stazzonato di lino blu e una camicia leggera”. Che aveva una “cartella di cuoio marrone dalla quale ho estratto – scrive – i giornali: il Financial Times del weekend, New York Times e Robinson, il supplemento culturale di Repubblica”, giusto per giocare in casa, e che stava, poverino, come ci dispiace, “finendo di leggere il secondo volume della Recherche du temps perdi di Proust”, almeno il titolo l’ha copiato uguale, e in particolare il capitolo, dice “Sodoma e Gomorra”. Accipicchia. Accipicchia.
Così nel mezzo del caldo torbido sul treno per Foggia, lui che “non sapevo” manco “che per andare da Roma a Foggia si dovesse passare da Caserta e poi da Benevento”, ecco nel mezzo del caldo torbido quando l’afa proprio ti stringe la gola e i pensieri non se ne vanno, rimangono lì alti come palazzi, macigni nel cuore, sull’anima, ha “estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la sua penna stilografica” e che “mentre facevo quello i ragazzi parlavano a voce alta come fossero i padroni del vagone, assolutamente incuranti di chi stava attorno”.
Poi farnetica qualcosa sul fatto che loro fossero totalmente indifferenti a lui e alla di lui persona e che quasi gli veniva da piangere perché si sentiva un’entità trasparente. Così preso dallo sconforto di questa sciagura esistenziale, e col fatto che non riusciva a concentrarsi per i ragazzi che parlavano di calcio, pallone, di ferie e di figa, sentendosi inibito per scrivere sul diario, ha deciso di deliziarci e di comporre questo struggente articolo, che vi giuro è un piccolo capolavoro, scrigno dell’antropologia culturale più pura. E più rara.
E già vedo quelli che vanno a googlare la parola lanzichenecchi, quelli che grazie al rampollo hanno scoperto una nuova parola. I lanzechenecchi altro non erano che le persone che venivano reclutate dall’imperatore soprattutto tra i figli delle famiglie di contadini. Sono i servi, gli schiavi della terra, i contadini arricchiti, quelli che Elkann nel suo pregiato articolo di fondo descrive come fossero stronzi senza manco l’orologio. Ma questo piccolo breve racconto d’estate, che manco dal dentista in sala d’attesa, altro non è che la cronaca classista di quello che la sinistra radical chic vorrebbe denunciare ma poi si trova costretta a fare i conti con la propria natura. Altro non è che la cronaca di chi ogni giorno prende il treno vestito di polo o camicia, senza lino, stazzonato o sgualcito, senza borsa di cuoio, di chi sa perfettamente che da Roma a Foggia non ci arrivi direttamente, e di chi per gli altri in stazione sei totalmente indifferente. Eppure. Eppure ci hanno dedicato un pezzo, in questa non patria che si indigna per i diritti di tutti, hanno veramente dedicato un pezzo per parlare di figli di contadini arricchiti la cui unica colpa sarebbe stata quella di parlare di figa. Poi lamentatevi che in Italia non fanno figli.

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